«I went a little farther,’ he said, ‘then still a little farther—till I had gone so far that I don’t know how I’ll ever get back. Never mind. Plenty time. I can manage.
[…] forget himself amongst these people—forget himself—you know».
(Joseph Conrad, Heart of Darkness)
30 settembre 2013
Ore 10.00 circa
Ho passato una nottata singolare. Ieri sera vado a letto abbastanza presto, sapendo di dovermi svegliare alle 7.30 per andare all’ISI. Rimbocco il mio asciugamano/lenzuolo e mi addormento. Poco dopo sento qualcuno uscire da una delle porte in corridoio e delle voci. Qualcuno fa un suono divertente e io mi metto a ridere, rido, rido e non riesco a fermarmi. Cominciano a bussare alla porta (chiusa col chiavistello, si ce l’ho fatta) ma io non riesco a smettere di ridere e non mi alzo dal letto. Non capisco se sto sognando, la risata sembra troppo innaturale per essere vera.
Difatti, qualcuno mi sveglia. Una mano sulla mia spalla ed un sussurro mi riportano alla realtà. Poi penso: la porta è chiusa, come hanno fatto ad entrare? Brivido di terrore. Sento la mano che scorre sulla mia spalla, ho paura, mi scrollo di dosso il lenzuolo e mi alzo di scatto per vedere chi sia. In quell’esatto momento mi sveglio davvero, ma stavolta non rido affatto. Per alcuni secondi ho dei seri dubbi sul fatto che si tratti l’ennesimo sogno nel sogno, ma poi guardo il cellulare accanto a me, è tutto regolare.
Come previsto, alle sette e mezza suona la sveglia, ma invece dell’elefante come nella pubblicità delle Gocciole, qua c’è il topo. Si, un grazioso topolino, che è coinquilino ormai regolare, residente nell’anta della credenza. Non ci facciamo mancare nulla.
Dopo le raccomandazioni di Claudia, prendo e parto alla volta dell’Istitut Seni Indonesia (ISI), l’accademia artistica presso la quale farò ricerca nei prossimi mesi. “Ricordati di continuare sulla sinistra all’obelisco” – mi raccomanda Claudia. Quindi arrivo all’obelisco… e giro altrove. È che proprio io non ci riesco a seguire le indicazioni giuste.
Grazie al navigatore (non me lo sarei mai aspettato) arrivo di fronte all’entrata principale dell’istituto, dopo qualche giro turistico in più. Mi aspetto folla, studenti, schiamazzi, ma niente, il nulla. Eppure è lunedì mattina. Sbaglio due o tre edifici e ho vari scambi di informazioni in inglese, ma più a cenni, gesti, e: “Ini/itu” (questo/quello), prima di trovare il Rektorat. Salgo al secondo piano come mi aveva detto Claudia e chiedo del responsabile Darmasiswa, il famigerato Mr Bambang… a lui stesso.
Ci mettiamo a parlare e gli spiego che sono qui grazie ad una borsa di studio dalla mia università, La Sapienza, non con il consueto programma Darmasiswa. Si tratta della prima borsa del genere, è una novità di quest’anno (mi sento molto cavia). Pare che lui sia già più o meno informato grazie allo scambio di mail che porto avanti da mesi, nella speranza di ottenere visti, permessi etc.
Gli rinfresco la memoria circa il mio scopo qui, ovvero ricerche per la tesi sulla musica del wayang kulit, il teatro delle ombre giavanese. Gli dico che ovviamente sono disposta a seguire ogni corso possibile, compreso il karawitan (musica tradizionale). Mi risponde che probabilmente posso seguire gli stessi corsi dei Darmasiswa che dovrebbero essere in inglese (ero quasi commossa). Poi, se riesco, posso seguire i corsi dello stesso wayang kulit del quale c’è un dipartimento apposito, Pedalangan (marionettistica), anche se mi avvisa i corsi sono tutti in giavanese.
Ad ogni modo deve chiedere al team che si occupa delle relazioni internazionali, che oggi non è presente, dunque, mi dà appuntamento all’indomani mattina. “Not before 10 a.m. Miss, in this university all begins not so early”, dice ridendo. Il fatto che se la prendessero comoda l’avevo ampiamente capito già da me. Mi dice che provvederà lui a rinnovarmi il visto e che in settimana inizieranno i corsi intensivi di Bahasa Indonesia – lingua indonesiana standard – tre giorni a settimana, per due mesi. Non potevo chiedere di meglio.
Ringrazio, saluto e accendo il navigatore ancor prima di rimettere in moto il motorino. Il ritorno è notevolmente più breve, lungo la strada trovo anche un chiosco di pulsa e mi ci fiondo stavolta a colpo sicuro. Gli detto persino il numero in indonesiano. Sto facendo progressi.
Ore 17.30
Oggi mi sento malissimo. Non solo sono sull’orlo dello svenimento e vado in giro come un’ubriaca grazie al caldo torrido e all’umidità che dà di l’idea di essere in una grande sauna, ma il mio stomaco comincia a dare i primi cenni di ribellione al nuovo regime alimentare. Mi sa che non gli era chiara la faccenda.
Vedendomi rasente il coma, Claudia decide di accompagnarmi lei stessa dalla tizia a Prawirotaman per cambiare il motorino, come stabilito (la tizia mi aveva lasciato un modello più nuovo e potente in temporanea assenza dell’altro, ma adesso è pronto e la pacchia è finita).
Dunque, sotto credo milletrecento gradi Celsius, imbocchiamo il benedetto vialetto e tra vari Buddha che non sono Buddha – neanche quello arancione lo è davvero, per me ogni divinità un po’ in carne è Buddha ormai – imbocchiamo Jalan Kasongan. Una macchina dalla mole improbabile rispetto a quella stradina misera blocca tutte le carreggiate, mentre una tizia attraversa trasversalmente portando una trave con sopra forme cilindriche color fango (che potrebbero essere qualsiasi cosa). Noi tentiamo di aggirare il tutto rischiando di schiantarci contro una pila di legname gettata così sull’orlo della strada.
Welcome to Yogyakarta.
Una volta giunti in loco ne approfitto anche per cambiare il casco, che è troppo largo e ha la chiusura rotta. Sempre la massima sicurezza su strada. Me ne fa provare altri tre uno più scassato dell’altro e dopo varie cinghie rimaste in mano ne prendo uno che comunque è enorme ma perlomeno si chiude in qualche modo. Dovrò comprarne uno al più presto. E così, cambio il mio caro Honda Vario comodissimo e all’ultimo grido (almeno qui), con uno sgangherato Yamaha Mio rosso fuoco, che di grido ha solo quello di disperazione.
Un minuto di silenzio.
Nonostante sia meno grande e quindi meno stabile è tuttavia decisamente più maneggevole, soprattutto per una alle prime armi come me. Posso addirittura poggiare i piedi a terra tranquillamente senza rischiare di accasciarmi di lato con tanto di trabiccolo sopra ogni santa volta (tratto da storie vere).
Ci rechiamo a pranzo in uno dei tanti Padang, catena di ristoranti in cui si vende cibo di Sumatra. Questo in particolare è situato, tanto per cambiare, sulla Jalan Parangtritis (a quanto ho capito, se non l’ho ancora confusa con la Jalan Bantul). Prendo una quantità spropositata di riso bianco sperando di porre limiti al mio stomaco, ma poi aggiungo il solito misto di pollo, uova e verdure. Alla fin fine gli alimenti sono gli stessi ovunque, cambiano solo le salsette e i modi di cucinarli. Questi sono particolarmente saporiti e speziati. Dentro il locale fa caldissimo, non c’è aria condizionata, solo ventilatori (spenti).
Notiamo con piacere che anche qui c’è un pittoresco porta-carta igienica colorato al centro del tavolo con relativo rotolo di carta dentro. Qui è utilizzato come Scottex. Un’altra caratteristica fondamentale nei luoghi di ristoro è la totale assenza di coltelli, ai quali sopperiscono i cucchiai, anche per cose che è evidentemente impossibile tagliare. Per tutto il resto ci sono le mani.
Dopo aver smaltito tre chili in sudore, aver mangiato pollo con forchetta e cucchiaio ed esserci pulite le mani e la bocca con della carta igienica, usciamo a respirare un po’ di sano smog cittadino. Ho capito perché tanta gente indossa mascherine chirurgiche. Le metterò sulla lista degli acquisti.
A proposito di acquisti, oggi pomeriggio sarei dovuta andare al Progo, un enorme centro commerciale – tipo lo Stockmann nordico versione indo-cinese, un’IKEA formato mercato al coperto – nel centro di Yogya, per acquistare beni primari (tipo lenzuola) in vista del trasferimento alla nuova casa, ma appena tornata sono caduta in coma.
Mi sono svegliata poco fa, con la testa nell’altro emisfero, lo stomaco che forse si era già alzato per andare in bagno da solo perché io non ce la faccio più a seguirlo e un imminente appuntamento col tizio dell’agenzia Javan Easy, che mi accompagnerà gentilmente a casa nuova per aiutarmi col trasloco. Per fortuna ho preparato le valigie stamattina, non ce l’avrei proprio fatta in queste condizioni.
Dalla casa accanto proviene un mix di chitarra acustica e canzoni in scala pelog con un gender. Il tokay fa da dj con il suo: “Okkei” perfettamente ritmato. Ed io sono qui a contorcermi sognando cocktail di ibuprofene e Imodium.
Ore 22.17
Nuova stanzetta
Scrivo dalla mia nuova postazione: una scrivania comoda in una camera carinissima, con le mie cose sistemate e un tokay domestico nel mio bagno. Si, lui c’è anche qui. Canteremo insieme sotto la doccia come due ubriachi.
Ad ogni modo, il trasloco è stato a dir poco comico.
Come stabilito, il tizio della Javan Easy mi viene a prendere alle 18.00 (che poi erano le 18.30, ma ormai non mi stupisco più). Viene in motorino. Mi aspettavo non dico un pullmino, ma almeno una macchina. Carichiamo i miei: “Heavy stuff” sui rispettivi trabiccoli. Lui si prende la valigia grande (che non so come riesca a tenere in equilibrio e guidare diritto al tempo stesso) e io mi prendo quella piccola tra le gambe, una borsa a tracolla e l’altra sulla spalla.
Iniziamo questo tragitto fantozziano, tra mille dubbi e perplessità. Ma d’altronde, ho visto trasportare gabbie con uccelli gradi quanto credenze. In effetti ho visto anche portare credenze. Tra l’altro il motorino nuovo non è così stabile come l’altro e diviene una sorta di circuito a scontro. Perdo una federa per strada. Una signora fa di tutto per farmelo notare, anche troppo, ma decido che non posso rischiare un incidente nel bel mezzo di un incrocio a semaforo verde e le dico addio per sempre.
Mentre proseguiamo, tento di fissare a mente cose che attraggono la mia attenzione: cartelli pubblicitari particolari, statue ed elementi paesaggistici di facile memorizzazione, così da non dover incorrere nuovamente in sgradevoli peregrinazioni senza senso. Credo di aver capito che dalla Jalan Bantul si giri sul South Ring Road per poi entrare, all’altezza di un grande cartello verde con scritto un nome che non ricorderò mai, in una stradina laterale. Si continua dritti fino a un monumento e si gira a destra, poi dritto finché non ci sono bandiere indonesiane e lì, ad un certo punto (il problema è sempre quale), si entra in un cancello composto da due colonnine bianche squadrate, sulla sinistra. Da lì sono praticamente arrivata.
Speriamo che di giorno tutto rimanga uguale, è incredibile come sembri un’altra città a seconda che ci sia luce o buio. Una volta in casa, trovo il proprietario al solito tavolinetto. Mi offre un tè e ci mettiamo, anche col tizio della Javan Easy, a fare due chiacchiere. Mi apre un mondo: scopro l’esistenza di una forma di wayang contemporaneo con musica Hip Hop, che mescola gamelan tradizionale a organici ‘occidentali’ e soprattutto in indonesiano standard anziché in giavanese.
Ma va anche oltre, mi suggerisce un’idea per la tesi. Mi consiglia di tracciare una sorta di evoluzione del wayang kulit e della sua musica, dalle forme tradizionali a quelle contemporanee. Mi dà anche alcuni contatti, siti e un libro che ahimè ancora non posso leggere. A parte qualche saya (io), itu (quello), datang (venire) e poco altro, non distinguo molte parole. Quello che ho capito è che qua comunque vada ti risolvono la vita in un attimo. Spero di poter andare presto alla Jogja Hip Hop Foundation.
Il tizio della Javan Easy mi propone di andare a cena con lui e dei suoi amici Dato che sono sola e non saprei davvero dove andare nel nuovo quartiere accetto volentieri. Prendo le mie cose, chiudo la camera (ho una chiave, non mi pare vero) ed esco. Mi scordo il cellulare, rientro e non riesco ad aprire la porta. “I think your room is the other one”, dice lui ridendo. Credo che si faccia più risate nelle poche mezz’ore che passa con me che durante tutta una nottata di wayang contemporaneo.
Riusciamo ad uscire.
Mi descrive sommariamente le cose più importanti in zona. L’amata Kasongan era più mistica e incontaminata ma anche un po’ fuori mano. Qui a Minggiran c’è tutto: ho il mio Superindo proprio dietro casa, mille posti in cui mangiare facendo pochi metri, persino una copisteria e soprattutto lampioni e strade monitorate. Mi sembra di essere la ragazza di campagna trasferitasi in città. Diciamo che questo è il quartiere che più si addice a sprovvedute come me, Kasongan è il livello advanced.
Percorriamo pochissima strada e arriviamo in una via piena di chioschi che vendono ogni sorta di cibo. Entriamo in uno chiamato 79, che lui asserisce far parte di una catena di: “Indonesian fast food” (in pratica il solito chiosco ma più organizzato). È specializzato in carne (pollo e anatra rigorosamente, figuriamoci) per questo si sincera che io non sia vegetariana. Ho conosciuto più stranieri vegetariani qui che in tutta la mia vita, ma come scoprirò in seguito, per molti è solo una copertura per non essere costretti a mangiare parti ‘poco chiare’ di animali.
Ci aspettano due suoi amici, un ragazzo indonesiano e una ragazza straniera (non ho capito di che paese, mi pare Francia) che sono sposati e studiano entrambi batik. Facciamo subito amicizia, dopo di che ordinano l’anatra con una salsa piccante e del riso con una spezia sopra (va a capire quale). Nel dubbio faccio lo stesso. Poi lui si rivolge a me con un: “Are you able to eat with the hands?”. Bella domanda. Non voglio fare l’occidentale spocchiosa, dunque asserisco con fermezza: “Sure”. Risultato: lascio nel piatto mezza anatra e una pila di tovaglioli (cioè carta igienica).
Vedendomi in palese difficoltà, il ragazzo mi invita a consumare il riso mediante forchetta, che prendo dall’altro tavolo. Mi fa però i complimenti per la mia sopportazione del piccante e mi dice che se reggo il piccante indonesiano, sicuramente imparerò presto l’indonesiano… Non entro più a fondo nella questione. Quando è il momento di pagare mi fiondano a parlare con l’inserviente, per testare il mio misero Bahasa Indonesia: “Bebek dan nasi, satu” (Anatra e riso, uno) – “Dua-lima”. Gli do 25.000 rupie, è giusto, mi compiaccio da morire.
Rimaniamo un po’ lì a parlare, poi riprendiamo i motorini. Dopo cinque minuti ad armeggiare con la chiave, scopro che non è la mia. Niente, oggi ce l’ho con le serrature sbagliate. Ridò la chiave al tizio della Javan Easy, lui si fa un’altra risata (gli sto allungando notevolmente la vita) e parto. Seguo i due ragazzi, che scopro essere miei vicini di casa, per tornare indietro. E per stasera siamo salve. Mi dicono che quando voglio posso andare da loro a prendere un caffè. Nel senso che posso piombargli in casa quando mi pare, senza preavviso. Qua a quanto sembra funziona così.
Tornata a casa faccio la piacevolissima conoscenza della mia coinquilina tedesca. Una bellissima ragazza alta, bionda e sorridente, che parla benissimo l’inglese. Fin troppo. Dopo un’ora di chiacchiere in cucina mi sentivo come avessi appena sostenuto un esame al British Council. Ha anche una cagnolina indonesiana piccolissima (più o meno grossa come il topo della credenza) dal nome Bintang, come la birra (per gli indonesiani: “Come una stella”). È tedesca, d’altronde.
Dopo aver sistemato la spesa (beata lei, io non ho comprato nulla alla fine, domattina arrostirò il tokay) mi dà la buonanotte. Al che io mi rimbocco le maniche e arredo. Finalmente posso riporre le mie cose nella mia stanza e nel mio bagno e ficcare quelle maledette valigie sotto il letto. Soddisfatta del mio lavoro, mi do beatamente agli affari miei, mentre la brezza notturna entra dalla finestrella e il tokay singhiozza beato in bagno.
“Okey, okey, okey…”. Stasera, decisamente non posso dargli torto.