La casa della sindhen

Capitolo 5 – AAA casa cercasi… disperatamente!

«Di notte, in terra straniera, l’infinito comincia con l’ultimo lampione, e lì il lampione distava solo venti metri».

(Iosif Brodskij, Fondamenta degli Incurabili)

28 settembre 2013

Pomeriggio

Entro in casa e informo delle nuove, buone e cattive. Tutti si stanno preparando per andare ad una festa di un’altra studentessa. Io ho altri piani per la serata, sono allettata dalla serata wayang al Jogja National Museum ma c’è un problema: non ho credito per avvisare il tizio e, tra l’altro, grazie al mio safari improvvisato, non ho neanche più benzina. Ergo: mi tocca riuscire.

Non ne sono convinta fino in fondo e forse ho ragione. Si è fatto buio nel frattempo e a Kasongan non ci sono luci fino alla via principale, le strade sono ancor più buie e la vegetazione fitta fa paura solo a vederla. Dunque, contro ogni buonsenso, esco.

Stavolta sono decisa a non prendere strade assurde. Innanzitutto mi fisso una volta per tutte i punti di riferimento da casa a Jalan Kasongan. Buddha bianco, casa rosa, rinoceronte in pietra, monumento delle leggi, Buddha arancione, deviazione stradale, cartello di arrivederci (Selamat Jalan). Dopo aver oltrepassato la Pintu Kasongan, vado dritta su Jalan Pangtritis fino alla morte. Ho deciso che non girerò mai, finché non troverò un benzinaio e un pulsa (ricariche telefoniche, letteralmente ‘credito’).

Il ‘Buddha rosa’ (che poi è Semar, dalla mitologia locale, ma io non potevo saperlo)
Il ‘Buddha bianco’ (che poi era un guerriero, ma io…)
Il Buddha vero

La mia idea funziona, riesco a fare benzina dopo soli quattro chilometri di marcia serrata. Ora, devo pensare alla ricarica. Il problema fondamentale è che non ci sono negozi definibili tali. A parte alcuni grandi centri commerciali tipo il Superindo, sembra tutto un’enorme mercato. Un’infinita accozzaglia di chioschetti senza apparente piano urbanistico è affastellata lungo i lati della strada. Tutti vendono un po’ di tutto, ma niente di definito: articoli per la casa in plastica colorata, parti meccaniche di ricambio, noodles precotti e cose che non saprei descrivere, ma basta pensare ad un articolo assurdo a caso e loro ce l’hanno.

Le ricariche potrebbe averle chiunque. Tra l’altro io cerco in particolare quella con il vaucher, poiché non sapendo il mio numero, non posso farla tramite terminale. Comincio ad entrare con tutta l’umiltà e la speranza possibile in ogni posto che mi ispira, andando incontro a fallimenti su fallimenti accompagnati da poco cortesi derisioni. Non sapevo che chiedere una scheda di ricarica (kartu pulsa) a Yogyakarta fosse come chiedere un razzo segnalatore a un panettiere.

Il problema è che oltre a non capire cosa sia l’oggetto, non capiscono neanche l’inglese. O meglio: io, che oltre tre/quattro parole sceme, d’indonesiano non capisco ancora un’acca, non riesco affatto a spiegarmi. Continuo invano a dire: “Pulsa”, indicare il cellulare, poi fare cenni negativi mentre dico: “I forgot my number, my number… I don’t know the number”.

Niente. Continuano a propormi il foglio sul quale scrivere il numero e guardarmi come un fenomeno da baraccone quando gli chiedo: “Kartu, card… do you know?”. Tuttavia continuo imperterrita a fermarmi ad ogni chioschetto che mi ispiri fiducia lungo la strada, finché la perdo totalmente all’ultimo.

Entro e creo le solite scene pietose. Sto per uscire e arrendermi quando entra lui: il vecchietto indonesiano dall’aria mistica che stranamente parla inglese, ma capisce meno della tizia al banco che non lo parla affatto. Da qui partono scene grandiose. Tra un fraintendimento e l’altro siamo arrivati al punto in cui credevano (ma forse a questo punto ci credevo un po’ anche io) che dovessi comprare un altro telefono, ma con una scheda diversa dalla Telkomsel, non so per quale motivo. Prima che mi convincano anche a cambiare motorino, ringrazio caldamente e me ne vado.

Ritorno più sconfitta che mai alla mia cara Kasongan e decido imperterrita di riprovare ad entrare in due o tre capanne in chiusura. Si tratta più che altro gestioni familiari rimaste aperte solo per prendere aria, senza lo straccio di un cliente o negoziante. Dietro il bancone c’è una porta che dà sull’abitazione privata attraverso la quale si intravedono scene di vita casalinga, con mamme che giocano con le bimbe sul tappeto e via dicendo. Alla fine ci rinuncio, se il tizio vuole che vada mi chiamerà lui. Ho finito il repertorio di gag comiche per oggi, non concederò più bis.

Desiderosa di tornare a casa più che mai, non ci riesco per l’ennesima volta. Recidiva, ho un amore viscerale per la natura incontaminata. Stavolta però la situazione è critica: è notte, non vedo nulla eccetto il poco che è illuminato dalla lucina del mio motorino e ciò che è rischiarato da qualche lanternino acceso in qualche capanna. Distinguo solo alcuni punti di riferimento ma puntualmente li riperdo e rifinisco nel nulla, nel vuoto cosmico delle risaie, tra fusti di banani che allungano i loro artigli come fossi Biacaneve nel bosco e ponticelli che so di non aver mai visto prima d’ora.

All’inizio mi dico che andrà tutto bene, d’altronde mi sono persa già due volte, troverò la strada anche una terza, basta continuare a girare senza allontanarmi, tornando indietro e magari imboccando una deviazione diversa, che abbia qualcosa di familiare. Ma di familiare non c’è proprio nulla. Provo ad accendere il navigatore ma le strade non sono monitorate (mi immagino “girare alla terza palma a sinistra e seguire l’andamento del ruscello”). La voce metallica continua a ripetere di tornare su Jalan Kasongan, la via principale, ma vedendo la mappa sono abbastanza lontana e non capisco come arrivarci. Comincio a girare totalmente a caso nella macchia verde informe sullo schermo in cui sono un puntino impazzito.

Quando sbuco su Jalan Kasongan il mio cuore si riempie di calore e gioia e mi riprendo d’animo. Ora mi dico: rifai tutti i passi dell’andata. Iniziano i segnali: Buddha, monumento musulmano, rinoceronte, casa rosa… nulla. No, di nuovo. Torno indietro, ricominciamo: Buddha, monumento delle leggi, etc. Lo rifaccio per circa quattro volte, alla quinta sto per scoppiare a piangere.

Opto per varie soluzioni, tipo: da Jalan Kasongan potrei riprendere la via del centro e andare a passare una notte nell’albergo che conosco, poi chiamare Claudia domattina. Oppure: potrei dormire sotto la statua di Buddha sperando che nel frattempo il mio karma si ricarichi. Ma anche: potrei chiedere ospitalità a qualche famigliola del villaggio, in cambio di lavori domestici.

Prima di darmi a cose estreme però, provo un’ultima volta. Stesse tappe, stessi giri, comincio ad odiarli, poi arrivo a un bivio che prima non avevo notato. Mi guardo intorno e sulla destra scorgo il Buddha bianco (per me qualsiasi statua è Buddha) coperto dalla vegetazione che permette di vederlo solo venendo dalla direzione opposta. Ecco dove sbagliavo, continuavo ad andare dritta.

Giro dopo il ‘Buddha bianco’ (che in realtà è un guerriero) e poco dopo sono a casa. Mi fiondo dentro senza neanche levarmi il casco, ho passato le due ore più brutte della mia vita. Decido di barricarmi dentro e non andare in giro di notte da sola mai più. Gli altri sono già usciti.

Prendo il mio computer e comincio a scrivere. Faccio anche ricerche su come scoprire il numero di telefono con la Telkomsel, mi dico: “Ci sarà un modo” e difatti c’è. Basta chiamare un numero, che ti risponde in indonesiano. Ma poi, fortunatamente, ti manda anche un messaggio, in indonesiano. Però i numeri sono a cifre. Meglio tardi che mai. Ad ogni modo decido che di ricariche se ne parla domani, stasera non ce n’è più per nessuno.

Poco dopo aver preso la mia ferrea decisione, squilla il telefono, è Claudia. Mi dice che ha incontrato il tizio della Javan Easy alla festa e che lui mi aspetta tra cinque minuti a Pintu Kasongan per andare al famoso spettacolo di wayang. A questo punto voglio essere sacrificata con le capre. Riprendo borsa, Canon, giacchetto e casco, ed esco.

Questa giornata non finirà mai.

Ore 1.00 del mattino

Casa di Claudia

Veranda di fiducia

Un geco ha appena ucciso una libellula e l’ha ingurgitata senza pietà. 

Ad ogni modo, lo spettacolo al museo non era granché. Ero insieme ad altre tre ragazze, un’ungherese, un’estone e una francese (sembra una barzelletta), tutte studentesse di arte, più il tizio della Javan Easy (di cui ancora non ho imparato il nome). Due attori parlavano in indonesiano e credo dicessero qualcosa di comico, perché tutti ridevano, mentre il gamelan suonava melodie semplici in slendro. Ad un certo punto l’attore chiede se vogliono che suonino in pelog e tutti ridono.

Il mio primo approccio con la comicità giavanese.

Tra l’altro, la presenza di una chitarra e di un violino acustico mi demoralizza sin dall’inizio. Filmo pochi minuti, giusto per prenderne atto, dopo di che seguo le altre ragazze che vogliono a tutti i costi visitare il museo di arte contemporanea. Vedi: tre piani di oggetti rotti assemblati a casaccio, con chissà che profondi significati esistenziali. Sarà che, mio malgrado, io sono una di quelle brutte persone per le quali una cassapanca rotta in corridoio è una cassapanca rotta in corridoio. Non ho sentito il bisogno di addossarle il pessimismo cosmico dell’umanità. Loro si fermano ad ogni installazione prodigiosa, io ne ho passate troppe oggi per avere la forza di fingermi interessata, dunque passeggio qua e là senza criterio.

Una notte al museo

Mentre riscendiamo una delle ragazze si ferma davanti una delle installazioni e mi fa: “Ooh, this is my favourite one!” – sguardi di interdizione – “Oh… yes, it’s my favourite too”. Sono una persona orribile. Dopotutto, però, devo dire che alcune cose erano interessanti. Cose tra le quali certamente non rientra la scatola di galleggianti rotti, con proiezione sulla TV soprastante di un tizio che pescava.

Dopo questo tour mozzafiato andiamo al bar a prenderci qualcosa da bere e mi innamoro del tè giavanese, decido che ne voglio a barili (e non sapevo ancora quanto il mio desiderio si sarebbe avverato).

Dopo un’oretta torniamo a casa, scortate fino ai rispettivi punti di riferimento. Stavolta non mi perdo, filo dritta a casa come una scheggia. Vorrei quasi darmi pacche sulle spalle da sola. Ora, credo che sia il caso di porre fine a questa giornata catastrofica, confidando in domani (che poi per me è già oggi perché sono le due qui).

Credo che comprerò una statua di Buddha.