La casa della sindhen

Capitolo 4 – AAA casa cercasi

«Andare, o sorella, o fanciulla,
Come sarebbe dolce,
Laggiù andare (ci pensi?)
A vivere, tu e io!
Amare a sazietà
Amare e morire

Nel paese che ti rassomiglia».

(Charles Baudelaire, L’invitation au voyage)

28 settembre 2013

Yogyakarta, camera dell’homestay

Casa, veranda, caldo, fiacca indonesiana

Ore 12.54

La nottata è trascorsa bene, tutto sommato, nonostante piccoli inconvenienti tipo la mia difficoltà a concepire la totale assenza di chiusure ermetiche degli infissi.

La finestrella sul letto, spalancata, dà sul giardino che è anche l’ingresso della casa, la cui porta non è mai chiusa a chiave. L’altissimo soffitto è dotato di apertura nel mezzo per prese d’aria, nonché di insetti di ogni sorta, ‘digievoluti’ (qui hanno dimensioni generose). Per concludere, la porta della mia stanza non si chiude. Ci ho provato in tutti i modi, senza risultato, per poi optare per un ventilatore accostato contro le ante a tenerle unite. Oltre a ciò, come una cretina, mi sono dimenticata di chiedere a Claudia cuscini e lenzuolo. Dunque, per non disturbarla ad improbabili ore notturne, mi sono arrangiata col sacco della biancheria come cuscino e l’asciugamano in micro-fibra come copertina.

Il lucernario
La mia alcova

A parte sogni allucinanti, tipo presenze inquietanti che compaiono nella camera unite alla percezione che non sia affatto un sogno il sonno è proficuo. Mi dicono che sogni simili sono frequenti qui in Indonesia, e io che mi facevo il problema di porte e infissi.

Mi sveglio per ultima, gli altri sono già a preparare la colazione, mi aggiungo a loro usufruendo della mia moka, portata in dono a Claudia, per un caffè che si possa definire tale. Mangiamo biscotti più o meno normali (al gusto caffè, è quasi una questione di principio) e una gustosissima papaya. Vado quindi a fare una doccia… gelida.

Non c’è acqua calda (non la avrò mai per i prossimi sette anni in Indonesia).

Mentre mi vesto ‘chiusa’ (per quanto possibile) nella mia stanzetta, odo un coro di voci cantilenanti dall’esterno. Provengono dalla moschea qua vicino, è l’ora della preghiera.

È meraviglioso. Mi sdraio sul letto e rimango in ascolto ad occhi chiusi per un po’.

Una volta pronta mi metto in veranda col mio computer a sbrigare faccende: reperire il famoso affitto e armeggiare col sito della AirAsia per trovare voli convenienti nel sud-est asiatico. Ho un po’ di mete in programma per il ‘Marry Christmas’ e l’ ‘Happy New Year’ (cit. tassista del primo giorno).

Trovo una casa bellissima vicino Prawirotaman, l’area dei backpackers qui nel sud, a metà strada tra casa di Claudia e l’ISI, dotata di bagno occidentale, cucina, WiFi, aria condizionata e giardino. È perfetta, e viene solo 900.000 rupie al mese (78 euro col cambio attuale). Tento di prendere appuntamento per vederla oggi pomeriggio e forse ci riesco (i tempi di risposta indonesiani sono molto, molto rilassati).

Un carretto del Sari Roti (pane aromatizzato) passa fuori casa, e il simpatico jingle arriva fino alle nostre orecchie dando luogo a scene di ilarità generale. Adoro tutto ciò.

Tra poco andremo a pranzo in un posto che dicono sia meritevole. In tutto ciò fa un caldo bestiale e tutto è quieto, rilassato e… giavanese.

Ore 20.00

Stessa veranda, innumerevoli vicissitudini dopo

Oggi ho combinato solo disastri. Anzi no, una cosa buona l’ho fatta: ho trovato casa. Ma troppo mi è costata. Ad ogni modo…

Claudia ci porta a pranzo in un posticino carinissimo. Cioè, il ‘carinissimo’ va sempre inteso negli standard locali. È un chioschetto abusivo nel bel mezzo di una strada che attraversa campi sterminati di risaie. Un verde vivissimo a perdita d’occhio.

Entriamo e prendiamo ciò che vogliamo: riso in bianco (che fa da base), pollo (che non manca mai in tutte le salse), uova (anche queste alimento portante, cotte in ogni modo possibile), verdure varie saltate con soia più che abbondante (che conquista il terzo posto sul podio dei cibi preferiti dagli indonesiani), noodles, fritti vari (tipo tofu, banane, soia, verdure tra cui sicuramente mais e poi vai a capire). Insomma, ci riempiamo i piatti e gli stomaci fino a morire.

Poi si paga all’indonesiana, cioè a fiducia.

Nel senso, qui funziona fondamentalmente così: tu prendi tutto quello che vuoi, non è essenziale renderne partecipe l’inserviente (che poi non esiste, c’è sempre e solo il proprietario o chi di dovere che si fa beatamente i fatti suoi). Mangi, bevi, fumi, fai quello che ti pare, e quando hai finito vai lì e gli dici: “Io ho preso questo, questo e questo”. E loro si fidano.

In Italia con questo metodo fallirebbero in una settimana.

Ovviamente i prezzi sono talmente irrisori che non ti viene proprio alcun cuore di barare. Io sono stata onesta, ho preso una barca di cibo e ho pagato comunque l’equivalente di un euro il tutto.

Tornati a casa mi collego subito ad internet per vedere se il proprietario dell’alloggio al quale ero interessata mi ha risposto. Mi dice di vederci tra un’ora a Prawirotaman (la strada che ormai dovrei conoscere alla perfezione), esattamente davanti al ViaVia, che è un posto turistico abbastanza rinomato, dunque inconfondibile.

Qua iniziano i guai.

La cretina quale sono pensa bene di chiamare il fisso dal cellulare. Dato che la tariffa comprende 12GB di internet ma molti meno minuti di telefono, il credito finisce . Claudia mi consiglia di andare a fare una ricarica prima di presentarmi dal tizio, anche perché andrò da sola, dunque qualsiasi cosa succeda (e succede) io sarò dispersa del tutto.

Ma c’è un problema: io non so il mio nuovo numero e non ho idea di come si faccia a saperlo, dato che non ho chiamato nessuno (a parte il tizio). Ho finito il credito dunque non posso chiamare neanche qualcuno dei coinquilini e su WhatsApp compare il mio numero italiano nonostante abbia rimosso la scheda (su Mistero, prossimamente). Gentilmente, Claudia mi presta il suo cellulare.

Parto per la mia prima missione solitaria lungo le vie di Yogya, una sorta di iniziazione, terminata malissimo.

Sicura di me, faccio tutto quello che ho imparato in questi due giorni: esco dal cancelletto di casa, seguo l’andamento del sentiero per qualche chilometro tra capanne, risaie, banani e ponticelli, svolto alla statua di quello che credo sia un Buddha e svolto ancora al monumento del pentalogo della costituzione indonesiana, dunque mi immetto su Jalan Kasongan e vado dritta fino alla Pintu Kasongan (l’enorme porta rossa intarsiata che sancisce l’ingresso dell’omonimo villaggio). Qui giro sulla sinistra sfociando su una delle arterie principali e più trafficate di Yogya, Jalan Parangtritis, e poi vado dritta.

Vado dritta…

Vado ancora dritta…

Dopo un po’ ho dubbi. Accendo il navigatore e noto con piacere che avrei dovuto girare molto prima per il vicoletto che Claudia chiama Prawi left, che immette direttamente su Prawirotaman. Evitando di continuare di testa mia arrivando in Malesia, seguo alla lettera il navigatore… che evidentemente ne sa meno di me, perché comincia a farmi fare stradine contorte in vicoli improbabili in cui il mio motorino si muove a stento.

Oltretutto, sono a doppio senso.

Figuriamoci.

Dopo innumerevoli svolte a caso, imbottigliamenti nel traffico tra scarichi di pullmini alimentati al napalm (oserei), motorini, biciclette, carriole e qualsiasi cosa dotata di ruote, zoccoli o piedi, becco lei: la sfilata di danzatori.

Era proprio quello di cui avevo bisogno.

Venghino!

Vorrei quasi prendere la Canon e filmare tutto, se non fosse che prima ho una cosa più urgente a cui pensare: trovare un senso al mio peregrinare. Nel frattempo mi chiama più volte il proprietario della casa, ma sono ovviamente impossibilitata a rispondere tra il motorino che ancora non governo bene, il traffico e cose assurde che accadono intorno a me.

Decido di affidarmi all’istinto.

Arrivo comunque, non so come, nell’area di Prawirotaman, devo solo trovare la via omonima. Ma c’è un problema. Ce ne sono quattro: Prawi I, Prawi II, Prawi III e Prawi IV. Grazie agli scompensi creativi di qualcuno, sono di nuovo da capo a dodici.

Giro un altro po’così per sport, finché avvisto la homestay in cui ero stata la prima notte. Siamo a Prawi I, perfetto. Continuo piano piano finché non avvisto il ViaVia e mi ci fiondo come avessi trovato l’isola di Montecristo. Mi ferma un tizio e io me ne esco felice come una Pasqua: “Hi, I am Ilaria! Are you…” neanche mi fa finire che comincia a dirmi cose tipo: “Do you need something to eat?”. Lo guardo un po’ più da lontano, e mi accorgo che indossa una divisa.

È il cameriere del ViaVia.

Chiarito l’errore, colma del solito gratificante imbarazzo, appendo l’ennesimo diploma incorniciato al mio muro della vergogna e decido di aspettare il tizio famoso dietro l’angolo. Lui non è ancora arrivato, perciò mi fermo a fare due foto. In realtà ne ho fatte pochissime finora, è paradossale, ma il fatto è che è tutto così nuovo che dovrei fotografare ogni centimetro cubo, inoltre non ho molto tempo di fermarmi a fare foto e poi mi dico che da qui a sei mesi passerò sin troppe volte negli stessi luoghi (soprattutto se mi ostino a perdermi).

Faccio un po’ di scatti lungo tutta la viuzza. Una signora ‘pretende’ una foto. Gliela faccio e me ne torno al motorino con la coda tra le gambe. Sono quasi stufa di essere aggredita dai locali.

Appena torno al motorino mi arriva un messaggio: “Where are you? I am waiting in front of Prawi II”.

Ecco, ha capito tutto.

Rimetto in moto, e mi riperdo, nonostante sia praticamente dietro l’angolo. Poi mi arrendo, fermo il motorino al lato di una strada qualsiasi e aspetto che mi richiami. Poco dopo, come prevedibile, lo fa:

Lui: “Hi, where are you?”

Me: “Really, I don’t know…”

Lui: “Tell me the name of a place you see in front of you…”

Mi guardo intorno scrutando tra baracche e cartelli scrostati e pericolanti dai nomi semi-cancellati. Poi ne avvisto uno che salta all’occhio.

Me: “Kamaraja… it’s a light-blue building…”

Lui: “Ok… you are in Prawi II, I’m coming in five minutes…”

Ora, ci sarebbero molte domande da fare (tipo: come ci sono arrivata? Ma soprattutto: lui non avrebbe dovuto essere già lì?) ma preferisco come al solito soprassedere. Finalmente mi trova, ci presentiamo e mi dice di seguirlo col motorino fino alla casa. Gli spiego che è il mio secondo giorno a Yogya, oltre che il mio secondo in motorino, lui si fa una risata e si stupisce (giustamente) che io stia andando in giro da sola.

Come dargli torto.

Arriviamo in pochi minuti e la casa è stupenda. Ha intorno un giardino in stile giapponese, anche se ha molti inserti indonesiani. Ci sono statue di Buddha, grandi gabbie di uccelli vuote in bambù (è un altro must delle case giavanesi), pietre scure levigate che fanno da ponticello al ruscelletto e abbelliscono il prato.

Entriamo e vedo subito il soggiorno composto da un piano rialzato con sottili materassi rossi intorno ad un tavolino, molto confortevole. Il tavolino è pieno di libri sul buddhismo, guide turistiche e corsi di lingue asiatiche. La cucina è immensa, ha ogni elettrodomestico possibile e immaginabile, è accessoriatissima e persino pulita. Mi fa vedere la mia camera, ce ne sono due libere in realtà, la terza è occupata da una studentessa tedesca di moda, ma io so già quale voglio.

È carinissima, con un letto a baldacchino che ha invece della tenda un’enorme zanzariera attorno (uniamo l’utile al dilettevole, anche se come presupposto mi atterrisce abbastanza, spero di non svegliarmi nel Borneo). È ammobiliata con un certo gusto, con un bagno privato occidentale ma in stile balinese, semiaperto con mura in pietre scure. C’è anche un’area lavanderia con lavatrice, stendini in bambù e tutto l’occorrente.

È perfetta. Non mi pare vero che costi solo l’equivalente di 78 euro mensili.

Sbuchiamo nella parte interna del giardino e lì ci attende il vero proprietario (in realtà quello della Javan Easy è solo un intermediario) che mi fa accomodare al tavolinetto basso su cuscini di paglia e ci mettiamo a chiacchierare. Gli dico che la casa mi va più che bene, già da lunedì posso trasferirmi, pagherò al momento del mio arrivo, senza contratto (rigorosamente, un po’ come il motorino senza assicurazione).

Poi mi chiedono un po’ di informazioni circa quello che studio e tra una cosa e l’altra, non so come, rimedio un ingaggio per un gruppo femminile di gamelan del sud di Yogya, un corso di Bahasa Indonesia e un invito per stasera ad uno spettacolo wayang con alcuni studenti Darmasiswa.

Svendite, fuori tutto.

Inoltre, dati i miei fasti, il tizio della Javan Easy mi dice gentilmente che può scortarmi fino a Pintu Kasongan, dato che lui va da quella parte e mi regala pure una mappa della città. Meno male che qua sono tutti gentili e la prendono a ridere (piacere, sono Ilaria, vengo da Roma e soddisfo ogni aspettativa della visitatrice occidentale imbecille e sprovveduta).

Dunque lo seguo fino alla Pintu Kasongan, faccio altri 100 metri in sua compagnia, finché non arriviamo ad un bivio. Mi dice di fargli sapere tramite sms se verrò stasera e mi saluta con un: “Are you sure that you have to go that way?”.

“Yes”, rispose ella con fermezza…

…e si perse, si riperse miseramente. Ma stavolta, non più nella cara vecchia Yogya cittadina, bensì nella foresta.

Kasongan non è che un villaggetto nel sud tra gli ultimi sprazzi di civiltà e le piantagioni di riso e banani. Più ci si inoltra, più le rade capannette in cui vivono famiglie locali che allevano capre e polli, forgiano vasi in terracotta e intrecciano oggetti in bambù, lasciano sempre più spazio a vegetazione folta e incontrollata, tra insetti che ‘cigolano’ (alcuni sono quasi oggetti di mobilio date  le dimensioni), strade sempre più anguste e accidentate e segnali inquietanti, tipo fuochi votivi fuori le case (N.B. solo molto tempo dopo scoprirò che si tratta di banale combustione di spazzatura, non esiste la raccolta), melodie intonate da vecchietti che risuonano nell’aria polverosa e costruzioni simili a tempietti dedicati a chissà quali divinità.

Tuttavia è ancora giorno, dunque non mi perdo d’animo e ne approfitto per riempirmi gli occhi di quella meraviglia. Non oso fare foto per non fermarmi col motorino nel cortile di qualcuno, non so come potrebbero prenderla.

Dopo giri in lungo e in largo, quando ormai cominciavo a stufarmi del buon vecchio habitat pluviale, sento un richiamo canoro molto più penetrante degli altri e sobbalzo. In quella situazione, diciamo che sentire certi suoni all’improvviso fa effetto. Poi mi ritorna alla mente la melodia… è il canto che ho sentito stamattina dalla moschea. Dunque, sono vicino casa.

Circumnavigo il colorito edificio e miracolosamente, lo vedo… il vialetto d’ingresso.

Sono così riconoscente che sacrificherei una capra all’istante.

Kasongan
Ingressi e giardini
La casa ha da piglia’ aria
Quattro ruote