“E ricordai: il suono è memoria, qui come altrove” .
(Steven Feld, Ecologia della Musica)
DOVE TUTTO EBBE INIZIO
Se qualcuno mi chiedesse: come sei diventata etnomusicologa?
Risponderei, senz’altro: per via dell’Indonesia.
Se qualcuno mi chiedesse: come ti è venuta voglia di fare ricerca sul campo?
Risponderei, senz’altro, che tutto è iniziato a Cremona.
Mi rendo conto che in un presupposto blog di racconti di viaggio, di fronte a nomi come Kuala Lumpur o Chiang Mai, di fronte alla Carelia Russa e alle cittadine sperdute tra Svezia e Danimarca, la piccola cittadina di Cremona ci faccia una pessima figura, come una Panda parcheggiata in una fila di Range Rover.
Mi rendo anche conto che parlare di ‘avventure’ a Cremona, possa sembrare apparentemente ridicolo.
Ecco, questo diario è la dimostrazione che l’avventura possa esistere davvero anche fuori al giardino di casa vostra, basta andare a cercarsela (in tutti i sensi).
Tutto è iniziato durante una delle prime lezioni di Etnomusicologia durante il corso di laurea magistrale.
Il nostro professore era in procinto di raccogliere le proposte per la prima missione di ricerca sul campo e io venni abbordata da Francesca, cara collega alla quale devo tutto ciò. Senza di lei, l’avventura non avrebbe avuto inizio. È la stessa che in seguito mi accompagnerà in un’altra pazza avventura (vedi Voci Dal Nord) e poi un’altra (vedi Don’t Push Yorself)
Insomma, è colpa sua.
Ci mettemmo d’accordo per recarci a Cremona, in cui il ‘saper fare tradizionale del violino’ era appena divenuto patrimonio UNESCO (era il lontano 2012).
Avremmo quindi trascorso due giorni nella neo-patrimonializzata cittadina a condurre interviste ai liutai nelle loro botteghe, con lo scopo di raccogliere informazioni che sarebbero confluite in un saggio sulla patrimonializzazione dei beni musicali (una delle cose che piacciono tanto agli etnomusicologi).
La vicenda si è svolta più o meno in questo modo.
PATRIMONI IMMATERIALI ED INIZIATIVE IMMORALI: PRIME MEMORIE DI UN’ETNOMUSICOLOGA IN ERBA
Sveglia alle 3.30 del mattino tipo campo militare (vai a capire perché), scomodissima borsa a sacco in spalla (sempre tutto secondo il regime, sempre vai a capire perché), impugno il cappello (di valore simbolico e gusto pessimo) e metto in moto la mia gloriosa Panda per andare a prelevare la mia compagna di viaggio.
Ed è così che alle ore 4.00 del 6 Aprile 2013 inizia ufficialmente la prima spedizione etnomusicologica sul campo. Missione: liuteria cremonese e patrimonio UNESCO.
Fato ha voluto che il genitore della sottoscritta, causa faccende lavorative da sbrigare, ci abbia potute accompagnare per parte della tratta automobilistica, diminuendo il carico il ore di guida della qui presente e di conseguenza la percentuale di probabilità di incidenti mortali a catena sulla A1 (ANAS e guidatori di tutta Italia ringraziano commossi).
Alle 10.30, giunte sane e salve a destinazione, dopo aver lasciato il genitore alla stazione di Cremona, le due si ritrovano nella periferia sud della città… convinte ciecamente che fosse la nord.
Iniziamo benissimo.
Parcheggiata la macchina di fronte ad un campetto sportivo in zona: “Qualche traversa più o meno dietro quello che mi sa deve esse viale Po”, si parte, cartina in mano, alla volta del centro storico. Lì ci aspettavano ben 148 botteghe di liutai (secondo internet, 156 secondo la versione aggiornata del tizio del Consorzio Liutai, 4 gatti secondo gli orari di apertura variabili e talvolta inesistenti) da importunare con registratore Tascam e taccuino alla mano.
L’idea di base era: ci dividiamo le zone della città in cui ci sono più liutai da intervistare, una va a destra, una a sinistra, e non appena raccolte interviste in numero sufficiente ci rincontriamo al centro per la pausa pranzo.
Ma dopo aver notato (grazie a vari simpatici episodi) che avevamo momentaneamente smarrito il senso dell’orientamento, abbiamo optato per un più semplice: tu vai da quello da un lato della piazza, io dall’altro, e ci rivediamo: “Esattamente qui”, per poi proseguire così di via in via e di piazza in piazza. Alla prima tappa Fra non ha molta fortuna, becca un liutaio scorbutico che rilascia poche parole poco utili in modo poco partecipativo. Io invece mi ritrovo nella bottega di Giorgio Grisales, che mi rilascia una signora intervista (la fortuna del principiante).
Mi approssimo alla bottega un po’ intimidita. Il signor Giorgio mi saluta prontamente: “Sei una delle ragazze che hanno chiamato per l’intervista vero? Arrivo subito”. Un sesto senso invidiabile. Mi guardo un po’ intorno nella bottega mentre lui finisce di parlare in spagnolo con dei clienti.
Mi fa accomodare nel laboratorio dicendomi con molta nonchalance: “Prego prego possiamo parlare, io intanto finisco alcuni lavori”. Chiedo: “Le dispiace se registro?”. Mi assicura che non c’è alcun problema e corre a prendere in fretta e furia due sgabelli sui quali sedersi. Mi prega più volte di dargli del ‘tu’ ma io continuo imperterrita con il ‘lei’. Man mano che l’intervista va avanti si appassiona talmente tanto alla questione che non riesco più a concludere, tanto che per tre volte gli stringo la mano per salutarlo, faccio un passo fuori, spengo il registratore, per poi riaccenderlo, rifare un passo dentro, e iniziare di nuovo il ciclo (ormai era divenuta una specie di danza).
Come seconde tappe Fra rimedia l’intervista più interessante della giornata a Daniele Ciaccio. Io rimedio solo un liutaio giovane poco ferrato e poco interessato alla faccenda, che rilascia pareri vaghi su questioni che sembra conoscere a mala pena. A ognuna il suo momento di gloria. Dopo essermi persa per uscire dal vicoletto angusto in cui era situata la bottega, non senza l’aiuto di simpatiche cinquantenni svampite (un must a Cremona, fatele patrimonio Unesco) raggiungo Fra e continuiamo l’estenuante ricerca.
Tra botteghe chiuse, liutai poco disponibili, onnipresente e labirintico mercato del sabato mattina (che contribuisce a confondere l’idea già poco chiara che abbiamo sull’urbanistica della città), riusciamo a collezionare qualche contributo interessante. Alla pausa pranzo parte il delirio da etnomusicologo da campo: chioschi ambulanti in piazza. Risultato: etti su etti (più che altro ettari) di polenta generosamente offerta dal porchettaio in chiusura, che proprio non sapeva che farci; polpette di pollo pesantissime (modello ‘funghi fritti fritti fritti’ alla Benigni) sempre fornite in quantità industriali e abbuffata di cioccolatini al chiosco dolciumi.
E così, in compagnia di scorte di cibo adatte a sfamare una comitiva d’alpini, ci adagiamo sui gradini del Duomo di Cremona, osservando i lavori di sgombero del mercato, grazie ai quali la città cambiava volto e il nostro senso d’orientamento riprendeva coraggio, decidendo di offrirci una nuova chance per il pomeriggio.
Nel bel mezzo del lauto banchetto, mentre sono intenta a trasformare in olio ogni cosa che tocco tipo Re Mida, vedo Fra che fa cenno di saluto ad un tizio seduto poco distante da noi. È il liutaio Ciaccio, intento a consumare un cartone di patatine fritte in pieno relax. Pensiamo quindi di disturbarlo. Cominciamo a discorrere del lavoro che stiamo conducendo riversandogli addosso tutte le ansie delle ricercatrici alle prime armi. Lui ci parla molto liberamente senza peli sulla lingua, fornendoci materiale interessante e inaspettato e risollevandoci abbastanza il morale.
Da lì ho capito che nell’etnomusicologia ciò che conta di più è la pausa pranzo.
Dopo questa piacevole conversazione, ci diciamo: visto che le botteghe dovrebbero riaprire verso le 14.30-15.00, perché non farci un giro turistico nel frattempo? Perché il deserto del Gobi in confronto è il cuore pulsante della movida. Cremona, dopo l’una del pomeriggio, inavvertitamente, inesorabilmente, muore. C’è talmente silenzio che puoi sentire il risuonare della suola di gomma delle Converse sul pavimento lastricato e sei costretto a parlare sotto voce per quanto l’eco rimbombi tra le case. Ma non ci perdiamo d’animo e ne approfittiamo comunque per fare una camminata a fini digestivi.
Dopo l’ennesima dovuta sosta-caffè (eravamo praticamente due thermos ambulanti) ricominciamo il giro interviste, non senza imprevisti e ostacoli di sorta. Molte botteghe infatti sono chiuse e non sembrano in procinto di riapertura pomeridiana, alcune hanno orari inesistenti o incerti, altre sono invece dotate di divertentissimi indirizzi fantasma o finti (vedi: “Ci aveva detto numero 17”; “Ma qui ci sono solo 18 e 19”).
Nonostante ciò riusciamo a racimolare del buon materiale, soprattutto dal liutaio Bergonzi, che ci intrattiene per credo una buona quarantina di minuti, partendo da risposte attinenti alle domande, per sfociare poi in piacevoli discorsi di architettura, arte, cultura e addirittura in un primo approccio alla liuteria pratica, conducendoci nel suo laboratorio a farci vedere e toccare con mano legni, parti di strumenti da assemblare e via dicendo. Sembra di essere entrate nella caverna delle meraviglie.
Dopo altri pochi giri in liuterie ‘tipiche’ (in cui spiccano manifatture giapponesi, cinesi e messicane) dopo esserci girate la città in lungo e in largo ed esser ripassate mille volte negli stessi luoghi, aver imparato scorciatoie e percorsi credo sconosciuti ai cremonesi stessi, raggiungiamo finalmente un numero soddisfacente di interviste ‘serie’. Ci diciamo che è tempo di un’intervista ‘trash’. Cioè quel tipo di intervista rilasciata da gestori o dipendenti di luoghi di ristoro/svago/shopping turistico dalle insegne/vetrine che richiamano fortemente la peculiarità culturale specifica della città e le personalità storiche e celebri che ivi hanno risieduto, ma che con esse hanno a che fare poco o niente.
Esempio pratico: Casa del formaggio Stradivari.
Cominciamo ad aggirarci con fare furtivo al di fuori della suddetta salumeria. Ben ponderando la possibilità di fare davvero ciò che stavamo per fare, teniamo sott’occhio il mastro salumiere, aspettando il momento proficuo per intervenire. Quando l’ultimo cliente finisce di essere servito (tutto ciò rigorosamente osservato attraverso la vetrina, aguzzando la vista tra una caciotta e l’altra) entriamo in azione. La cosa va più o meno così:
Noi: “Buonasera, ci scusi, siamo due studentesse di musicologia…”.
Lui (interrompendoci): “Brave”.
Noi (già capito l’andazzo): “Grazie. Stiamo facendo delle interviste in merito al riconoscimento della liuteria cremonese come patrimonio immateriale UNESCO…”.
Lui (interrompendoci di nuovo): “Ah, mi fa piacere” Noi: “Si. Potrebbe dirci la sua opinione? Quali vantaggi e quali svantaggi comporta? Cosa…”
[Segue trattazione ininterrotta di temi più svariati, dalla Festa del Geranio di Vicenza, al figlio di Ugo Tognazzi che passa in bici davanti la sua bottega, a Mina, al torrone Vergani. Il tutto intervallato da ciclici, iterativi e martellanti “O sbaglio?” in marcato accento padano, accompagnati da progressivo avvicinamento ai nostri volti tipo un, due, tre, stella].
In realtà una persona squisita.
Reale utilità dell’apporto alla ricerca: 0,00001 %
Componente folkloristica aggiunta: 100%
Dopo questo, abbiamo stabilito all’unanimità che la ricerca poteva dirsi davvero conclusa, ora dovevamo stabilire il da farsi.
La serata avrebbe dovuto proseguire più o meno in questo modo: cena leggera, possibilmente insalata o frutta, ritiro tantrico/monacale in albergo, e sano riposo per recuperare le forze in vista del ritorno a Roma il mattino seguente. Quello che narrerò di seguito, corrisponde alla realtà dei fatti.
Attirate, come moschini su un tendone giallo, da un tabellone di un ristorante giapponese che promette menu all you can eat al costo fisso di 11, 15 o 23 euro, stabiliamo irrevocabilmente che quella sarà la nostra cena.
Dopo di che, sedute comodamente su di una panchina nei pressi di viale Po, ci prodighiamo a chiamare vari numeri di hotel cremonesi e riusciamo a prenotare una camera. Ma già le prime scintille del lume di follia si accendono nelle nostre menti.
Finisce che rimaniamo quattro ore dentro al ristorante, ordinando ogni cosa ordinabile sul menù fino a rischiare di sentirsi male. All’una di notte, constatato che rimanevano pochissime ore di sonno, facciamo la cosa più saggia: disdiciamo la camera d’albergo. A questo punto rimaneva una sola cosa da fare: scegliere la città più carina vicino Cremona e andare a vedere l’alba nella relativa piazza principale. Su consiglio del nostro collega Gianluca, importunato al telefono nel cuore della notte, imbocchiamo la strada per Piacenza.
O meglio: cominciamo a seguire ogni sorta di cartello con su scritto ‘Piacenza’, fino a ritrovarci su una strada extraurbana (ma oserei anche extraterrestre) immersa nel nulla agreste, illuminata solo a tratti da lampioni giallognoli a luce intermittente. La traiettoria è più che altro era un susseguirsi di ponti orribili, rotatorie su rotatorie buttate lì come dischi di pasta-frolla sul banco di un pizzaiolo e cartelli che riportano di tanto in tanto nomi dai richiami tragicomici.
Alla fine a Piacenza ci arriviamo e anche in poco tempo (mezz’oretta circa). Ma è quello che troviamo all’inizio che non ci convince a rimanere. È praticamente il paradiso della prostituzione. Nel dubbio, continuiamo a seguire l’indicazione ‘centro’ fino alla morte. Tutto quello che troviamo si riduce a: due bar aperti, la piazza principale illuminata, un chiassoso disco-pub pieno di ragazzine urlanti e il buon vecchio nulla. Tra le ultime due opzioni poco allettanti scegliamo la seconda, dato che la prima ci chiude letteralmente la porta in faccia. L’intento era più che altro quello di non morire assiderate causa freddo polare all’esterno e magari svegliarci un po’ con un caffè.
Risultato: alle ore 2.30 circa, blindate in macchina in una traversa a pochi metri dal centro, scegliamo pose scomodissime e intricate e ci facciamo due o tre misere ore di sonno. Ovviamente non avevamo considerato un piccolo dettaglio: il gelo. Ma non perdiamo d’animo e, con uno schiaffo al pericolo, optiamo per un’accensione del riscaldamento ad intervalli irregolari, il che ovviamente comportava la messa in moto della vettura. Il tutto, unito al rischio di rimozione del freno a mano causa bruschi movimenti nel sonno, conferiva una certa atmosfera di tensione.
Un sopralluogo tranquillo, tutto sommato.
Alle sei del mattino, fresche come due rose, torniamo alla volta di Cremona, per poi recuperare mio padre al suo albergo e tornare con lui.
O meglio: farci riportare fino a Roma cercando di evitare a tutti i costi che io mettessi mano al volante e ci rimanessi oltretutto per sei ore, in quelle condizioni. La strada del ritorno da Piacenza è la stessa dell’andata, ma stavolta indolore. Non so se più per le prime luci del mattino che contribuivano a rischiarare ogni cosa o perché giunta ormai ad uno stato di trance autoindotta avrei potuto guidare un biplano senza neanche accorgermene. Abbiamo persino l’occasione di assistere al nostro agognato sorgere del sole… nel bel mezzo di una rotatoria, tra dei lavori in corso ed una fabbrica.
Arriviamo da mio padre, ignaro delle nostre idee malsane. Lui esordisce con un: “Ho dormito malissimo stanotte, inizia tu a guidare che sarai più riposata, io ti do il cambio a BOLOGNA”.
[Seguono attimi di terrore].
Ed è così che, facendo conto sulle mie ultime risorse vitali (non tanto della giornata ma proprio del resto della vita) mi metto al volante. Mi faccio questi bei 150 Km, tra una conversazione e l’altra, con Fra beata sul sedile posteriore che sprofondava in un coma semi-irreversibile.
Tra una chiacchiera e l’altra, mio padre esordisce con: “Comunque potevate prendere anche voi una stanza nel mio albergo, stamattina mi sono ritrovato a colazione con un sacco di liutai, facevano lì un convegno”.
Da qui ho capito che la ricerca sul campo sarebbe stata la mia vita.
O sbaglio? [Da ripetere ossessivamente a piacimento].