«Remnants of the storm clouds created pale eerie shadows across the night sky. The earth was still wet from the rain, sparkling like the surface of a lake. A large screen loomed there, like the sail of some strange boat. It was wayang shadow puppet screen, but there would be no leather puppets; human beings would be telling this story».
(Ayu Utami, Maya)
27 settembre 2013
Yogyakarta, camera della homestay
Ore 10.47
Ho passato una notte magnifica, ci voleva proprio. Il letto era comodissimo, la temperatura della camera perfetta, la luce filtrava appena dai vetri colorati della finestrella sopra il mio letto e fuori si udivano cinguettii dei pappagallini. Un sogno. Se leviamo il fatto che ho ingurgitato un Oki in polvere, senz’acqua, prima di coricarmi (ho il terrore, non sto quasi bevendo affatto da due giorni dopo il terrorismo psicologico del mio medico).
Stamattina apro gli occhi alle 9.00, per fortuna, dato che avevo messo la sveglia alle 8.30… di sera. Non ho capito niente del fuso orario.
Mi lavo e mi vesto in fretta indossando gli stessi vestiti di ieri. Non voglio smontare la valigia più di quanto già non lo sia, dato che è praticamente esplosa e non si chiude più, temo di averla rotta, com’era logico che succedesse.
Avvertendo un certo languorino, decido di affacciarmi per la colazione. Esco dalla mia cameretta e sbuco nel giardino, un incanto: sotto il pergolato arricchito da grovigli di piante esotiche c’è un gazebo con tavolini e sedie in legno intagliate con figure del teatro delle ombre. Dei vasetti con alcune piantine pendono dalla tettoia. I colori sgargianti – rosso, verde e dorato – delle porte delle stanze fanno un meraviglioso contrasto e i pappagallini cantano. Corro a prendere la Canon e immortalo tutto.
Mi avvicino al bancone dove trovo del caffè solubile ed un distributore d’acqua calda. Faccio del mio meglio ma il risultato è prevedibile.
Bevo acqua calda amara granulosa.
Una turista si lamenta del mancato reperimento cibo, al che guardo l’ora: le nove e mezza. “Maybe, it’s too late”, dico. Mi fa notare che in teoria saremmo ancora in tempo, ma non ho voglia di indagare, dunque torno in camera a prendere le ultime due barrette ai cereali. Appena torno al tavolo, un giovane indonesiano mi chiede se voglio che mi faccia preparare qualcosa da mangiare. Guardo con rammarico le mie barrette e con evidente corruccio in volto gli dico: “Ok, that’s fine”.
Torna poco dopo con un piattone di riso, pollo al cocco e una poltiglia marroncina con sopra adagiato quello che sembra un uovo sodo, ma dal colore marrone scuro. Tento di analizzare la situazione. Riso e pollo, inconfondibili. L’uovo, che non è il Kinder (all’inizio ci ho quasi sperato) – mi dico – apparterrà a qualche uccello locale. In fin dei conti è un uovo, lo assaggio, è dolciastro, ma non troppo diverso dalla consistenza delle uova nostrane.
Giocherello con la poltiglia muovendola con la forchetta. La mischio un po’col riso, poi mi decido. Assaggio. Inizialmente non capisco di cosa sappia. Sapore indefinito. Poi mischio meglio e anch’essa ha un sapore dolciastro, simile a quello delle uova. Forse è lo stesso uovo, strapazzato, con aggiunta di chissà cosa che tuttavia non guasta più di tanto. Rimango perplessa per tutto il tempo della consumazione, ma finisco quasi tutto, lasciando la foglia di banano che fa da piatto quasi pulita. Lì per lì ipotizzo di aver appena ingerito una versione indonesiana del bacon&eggs continentale.
(Solo molto dopo scoprirò essere il piatto yogyanese tradizionale, il gudeg, e che la ‘poltiglia’ non è altro che il jackfruit cotto. Il colore marroncino e il sapore dolciastro dell’uovo sono dovuti alla salsa di soia dolce, appunto, che scoprirò essere un must dei condimenti locali).
Torno in camera con la stessa faccia di quando ho cominciato il pasto. Ancora non ho deciso di cosa sappia, ma ormai è tutto passato, il mio stomaco è pieno, spero solo che quando verrà il momento di svuotarsi lo faccia in modo ‘convenzionale’.
Mi metto d’accordo con Claudia per vederci tempo un’ora al Pintu Kasongan (la porta d’ingresso del suo villaggio). Mi farò portare in taxi fin lì, e poi seguiremo il suo motorino.
Raffazzono le valigie strabordanti e distrutte alla meno peggio, ne rompo una, e sono pronta.
Villaggio di Balungan, Kasongan
Casa di Claudia
Ore 13.00
Tutto sta procedendo bene. Ho fatto chiamare un taxi (legale) dall’albergo che è arrivato in due minuti. Non prima di aver avuto il tempo di farmi abbordare da un guidatore di becak che voleva a tutti costi portarmi di persona. Salvata ingloriosamente dal tizio della reception.
Arriviamo a Pintu Kasongan dove, come stabilito, mi aspetta Claudia in motorino. Tento di spiegare al tassista cosa deve fare da lì in poi, ma non capisce una parola e ottengo solo di fargli credere che voglia tornare in albergo. Per fortuna Claudia fa un cenno e lui capisce al volo. Dice che funziona così.
Tempo di altre stradine intricate tra casette in legno e pietra, siamo arrivati. Il mio stomaco è parecchio sottosopra, maledetto uovo. Pago solo 70.000 rupie stavolta, contro le 100.000 della sera prima. Più ci allontaniamo dai luoghi turistici, più le tariffe diventano reali.
Casa di Claudia è stupenda, tutta in pietra. Vi è un ampio cortile interno ai lati del quale si trovano un bagno, la cucina (anch’essa all’aperto, o meglio, sotto una tettoia) e dalla parte opposta un salottino che apre l’accesso ad un’altra ala dell’edificio, in cui ci sono diverse stanze, un altro bagno e un’altra stanza adibita ad uso comune che poi sbuca di nuovo sul cortile.
È enorme. Non per niente la soprannominano The Castle, anche se il nome comune è Stonehouse. Pare sia molto rinomata tra le case in affitto per stranieri qui a Yogyakarta sia per il prezzo che per la posizione, oltre ad altri non trascurabili fattori di libertà e privacy che scoprirò col tempo.
Mentre diamo una ripulita alla stanza in cui risiederò durante questi primi giorni, prima dell’arrivo della legittima affittuaria, facciamo due chiacchiere che mi chiariscono un po’ di più la situazione. Claudia mi racconta la sua esperienza e mi dà consigli sul da farsi circa i corsi all’ISI – l’accademia di arti performative presso la quale ho vinto la borsa di studio – i trasporti, la lingua e una marea di altre cose che la mia mente spaesata segue a stento.
Ora andremo ad affittare un motorino, a procurarmi una scheda telefonica di una compagnia locale e a fare un giro per risolvere le prime incombenze pratiche.
Ore 22.34
Casa di Claudia
La giornata di oggi è stata proficua. Strana, ma proficua.
Dopo aver messo un annuncio sul gruppo dei Darmasiswa (studenti stranieri che seguono un programma di borse di studio governative) per reperire una sistemazione definitiva, Claudia mi porta a fare le commissioni necessarie. Salgo in sella al suo motorino e sfrecciamo per le vie di Yogyakarta fino al Motorbike Rental.
Vedo scene magnifiche. Le persone caricano praticamente di tutto sui motorini: fasci di vegetali indefiniti, mobili, bagagli, bambini (nel senso di intere famiglie su un motorino con tanto di zainetti e buste della spesa).Dovrò scusarmi con il tassista se mai lo rincontrerò, decisamente Napoli non compete. Sono tantissimi. Frotte di Yamaha e Honda rombanti che si infilano ovunque, non c’è una regola, no destra, no sinistra.
Everywhere, everyhow, everybody needs somebody.
Tra l’altro, spiccano persone in bici scalze e carrozze con cavalli, ma la palma d’oro va ai chioschetti ambulanti in legno trascinati da provati vecchietti che vendono ogni sorta di cibo e bevanda nel bel mezzo delle strade e delle carreggiate.
Affitto il mio motorino, il mio primo motorino, mai portato, neanche a Roma. Quale posto migliore per la prima volta? Ma, d’altronde, da una che fa il primo bagno estivo in Lapponia non ci si poteva aspettare di meglio (vedi Voci dal Nord).
Approfittiamo del parcheggio del centro commerciale (il mitico Superindo, già lo adoro) per fare pratica. A parte la partenza in quarta contro un SUV, che tuttavia non prendo per un pelo, sembra che io sia fatta per le due ruote. E dunque, dopo pochi giri di prova, si va in strada.
Guidare in quel marasma è la cosa più pazzesca che esista. E oltretutto è facile, più di quanto mi aspettassi. Non dovendo seguire regole, l’unica regola è: preserva la tua vita. Tutto il resto è totalmente irrilevante. Non mi faranno multe perché supero sui marciapiedi, taglio la strada al carretto di papaya o accelero in modo improprio al semaforo. Devo solo stare attenta alle precedenze (rigorosamente da non dare quando segnalate e da dare quando ne avresti diritto) e a qualche pazzo contromano, un gioco da ragazzi.
Per festeggiare e combattere il caldo, ci prendiamo una Coca Cola in un chiosco. Costo: pochi centesimi, noccioline indonesiane (kacang) incluse.
Tappa successiva: JogjaTronic (i nomi dei luoghi sono geniali), per provvedere al nuovo contratto telefonico, con la TELKOMSEL, che per l’equivalente di meno di dieci euro al mese mi dà 12 GB di internet e minuti di chiamate. Inizialmente mi danno una SIM card standard, poi Claudia gli spiega che io ho una micro SIM. Quindi la tagliano a mano. Pare che calzi alla perfezione e, ancora meglio, che funzioni.
Decido di accettare in silenzio tutto ciò che avviene e non farmi troppe domande.
La connessione non è delle migliori (nonostante Claudia mi assicuri che prenda anche nella foresta pluviale) ma riesco persino ad usare WhatsApp, un’ora si e due no. Meglio comunque di ogni mia aspettativa.
Torniamo a casa lungo tutta Jalan Parangtritis, Jalan Bantul (che io continuo a confondere con balungan, la melodia fissa dei brani gamelan) e altre viuzze tra foreste e capanne, per raggiungere la nostra casa nel villaggio di Kasongan. Riesco persino a rimanere viva. No graffi, no scontri frontali, no carretti incollati.
Level completed.
Ci riposiamo un po’ prima di andare a cena, mangiando una papaya e parlando di varie esperienze di vita. Cioè, Claudia mi racconta un sacco di cose del suo anno qui e io pendo dalle sue labbra come un gong dalla sua struttura. Scopro, tra l’altro, che la canzone indonesiana cantata anni fa allo spettacolo con il gruppo dell’ambasciata, che io riempivo di significati mistici, dice banalità quali: “Andiamo tutti insieme in barca”, e s’intitola Noccioline Noccioline.
Ci sono rimasta malissimo.
Mi reco a cena con Claudia e gli altri coinquilini in un posto a Bantul chiamato Sego Kucing (letteralmente ‘riso gatto’, che significa piccole porzioni di riso, come quelle che daresti a un gatto). Me lo ha spiegato Claudia, io ero abbastanza in apprensione per la faccenda del gatto.
Li seguo in motorino non risparmiandomi le solite brutte figure (vedi: panico nel disinserire il blocco, parcheggi poco fluidi ‘dentro’ gli alberi e tentativi suicidi di guida sulla destra, mio malgrado).
Mangiamo nasi goreng (‘riso fritto’) e altre cose fritte assortite (tra cui banane) e beviamo succo di mango fresco. Il locale offre anche sigarette Djarum Super, la mia nuova droga (anche se in realtà non fumo), aromatizzate ai chiodi di garofano. Abbiamo pagato meno di un euro a testa. Finalmente si cominciano a vedere i veri prezzi indonesiani. C’è anche una TV nel locale che trasmette una improbabile telenovela in cui dei bimbi parlano con delle tigri, in giavanese.
Comincio a rivalutare Bollywood, stacchetti inclusi.
Da oggi, ad ogni modo, ho un nuovo scopo nella vita: imparare l’indonesiano alla perfezione. Ne sento un bisogno viscerale. Già comincio a familiarizzare con le formule standard. Ogni tanto chiedo a Claudia delle frasi e le ripeto ai negozianti, per fissarle in mente. Faccio progressi.
Dopo cena ci fermiamo a prendere delle birre Bintang, la marca locale, e altre sigarette (mi darò certamente al contrabbando) per allietare la serata.
Al ritorno passo col motorino su un topo morto. Nel tentativo di evitarlo, rischio di finire sotto ad un ponticello, in un corso d’acqua dall’odore meno invitante delle uova di stamattina.
Che dire, mi sento a casa.