Don’t push yourself

Capitolo 2 – Safari con furto

«Naturalmente viaggiare per il mondo non è così bello come sembra, solo dopo che sei tornato da tutto quel caldo e quell’orrore ti dimentichi dei guai passati e ti ricordi le magiche scene che hai visto».

 (Jack Kerouac, Viaggiatore Solitario)

26 dicembre 2013

Aeroporto di Surabaya

Max Pezzali lo definirebbe: ‘Il grande incubo

Da quando siamo partite non ce ne va bene una.

Eravamo rimasti alla camera d’albergo, 21.30 circa, in procinto di goderci cinque beate ore di sonno (su circa LogX26700045x∞ perse).

Alle due meno dieci del mattino, un risuonare ostinato di percosse alla nostra porta ci fa svegliare di soprassalto.

È la guida che ci intima a gran voce e senza troppi manierismi che è ora di andare.

Non ci dà neanche modo di protestare, argomentare o fare domande.

Reprimiamo qualsiasi cosa ci venga in mente in quel momento, compreso un urlo a gran voce: “Siete tutti pazzi”. Raccattiamo velocemente il necessario buttandolo in fretta e furia negli zaini, ci mettiamo tutto quello che abbiamo senza ordine né criterio, dato il freddo gelido che arriva da fuori, e saliamo in macchina senza capire cosa stia succedendo.

È una via di mezzo tra un’esercitazione militare ed un’irruzione degli SWAT in casa per arresto con aggravante di terrorismo (non che a quel punto non fossimo tentate).

Dopo un’oretta di macchina, ma più che altro di sonnambulismo, arriviamo ad una graziosa baita alle pendici del monte Bromo.

Quello che avrebbe dovuto essere il nostro albergo se non ci fossimo “intrattenute” nel tour dei pronti soccorsi. 

Eccolo là, tutto grazioso nel suo design caratteristico giavanese, con vista mozzafiato sulla vallata e sul monte.

Più lo guardiamo più ci mangiamo le mani.

Mentre attendiamo che i compagni di scalata ci raggiungano ristorati delle loro ore extra di sonno, prendiamo posto sulla Jeep.

Posto cambio.

Nel senso che è letteralmente ficcato nella mia coscia, non senza evidente compiacimento del guidatore.

Dato il freddo cane che comincia a scalfire le nostre ormai nulle difese, riteniamo opportuno domandare se eventualmente ci sia un rivenditore di giacche, coperte, cappelli o articoli invernali di sorta, prima di iniziare la salita (cosa che, del resto, è pubblicizzata su tutte le guide).

Non c’è.

Ci buttiamo due asciugamani addosso (gettati negli zaini dalla mano invisibile di Fatima) e ci mettiamo l’anima in pace.

Tanto per non lasciare nulla di intentato, chiedo se, proprio per caso, ce ne siano in cima.

Mi dice che: “Ya, nanti ada” (“Si, dopo ci sono”).

Quasi gli credo.

Dopo altri 45 minuti di pura adrenalina, usciamo da quel frullatore su ruote completamente rintronate e mettiamo piede a terra.

Nella giungla.

Cominciamo la salita tra l’erba alta fino al collo, riuscendo a raggiungere l’altro versante del sentiero dove, a tentoni nel buio (rischiarato da sprazzi di cellulari tremanti) iniziamo ad inerpicarci su per il pendio.

Con le Superga.

Del resto, uno davanti a me indossa delle pratiche infradito di gomma.

Finalmente conquistata la vetta di quella che scopriamo essere una modesta collinetta vista vero monte, rimaniamo un’oretta immobili a contemplare il sole nascente, tra battimenti di denti compulsivi e saltuarie foto con sconosciuti contro la nostra volontà.

In tutto ciò, c’è della gente che mangia noodles precotti, alle quattro del mattino, a metri di altitudine.

Fatte le dovute foto alle varie fasi del sole nascente, decidiamo che è abbastanza e torniamo alla Jeep. Quando anche gli altri passeggeri finiscono le loro varie attività e riprendono comodamente posto, ci dirigiamo in direzione del cratere del vulcano.

Impressione del sole nascente sul Bromo #1
Impressione del sole nascente sul Bromo #2
Impressione del sole nascente sul Bromo #3
Impressione del sole nascente sul Bromo #4

La Jeep si ferma in una sterminata landa sabbiosa, contorniata da altre innumerevoli Jeep identiche che scaricano turisti a rotta di collo. È lì che il nostro autista ci dà l’appuntamento, raccomandandosi di tornare entro un’ora.

Ci troviamo davanti a due opzioni per salire fino al cratere: le nostre gambe e il cavallo.

Nonostante le accorate proteste di Fra, scelgo senz’altro il cavallo.

È mentre monto in sella (per la prima volta in vita mia, tra l’altro) aiutata disperatamente dall’omino che mantiene le briglie e tanta pazienza, volgendo lo sguardo in direzione della scarpinata, che le parole dell’infermiera mi tornano alla mente come un’epifania joyciana: “Don’t push yourself”. Decido di prenderlo come un test: se non muoio ora, sono decisamente fuori pericolo.

Il cavallo ondeggia tremendamente, io mi tengo saldamente con tutte le mie (poche) forze mentre Fra corre come una matta tra gli affanni, tentando di starmi dietro.

Arriviamo su indenni. L’omino ‘parcheggia’ il cavallo ai piedi della gradinata che porta al cratere, tra mille colleghi-sosia che reggono altri mille cavalli uguali e mi dice che mi aspetta lì.

Mentre ascendiamo al famigerato cratere tramite apposita scalinata a doppio senso, notiamo un interessante particolare: vanno contromano anche a piedi.

La barriera divisoria tra i due sensi praticamente non sussiste. È un ingorgo bestiale. Non avevamo considerato questo particolare, che ci fa impiegare più del previsto.

Nel frattempo, ‘tic toc’, i minuti che ci separano dall’incontro con la guida si assottigliano sempre di più e non abbiamo ancora avuto modo di affacciare il naso sul cratere.

Un viaggio all’insegna dell’ansia.

Giunte in cima dopo fatiche che Sansone neanche immagina, abbiamo a malapena il tempo di scattare due foto alla caldera fumante che è ora di riscendere.

Ma c’è un problema: non trovo più il tizio col cavallo. Come prevedibile, ce ne sono miliardi, parcheggiati l’uno a fianco all’altro. Comincio a girarmi intorno giocando al “trova le differenze”, non tanto sperando di trovare lui quanto che sia lui a trovare me. Dato che ciò non avviene, comincio a chiedere a chiunque, non so neanche io cosa in realtà, tra fiumi di altri accompagnatori che mi propongono passaggi, a pagamento. Gli dico che ho pagato anche per il ritorno, ma non riesco a ritrovare l’uomo. Mi chiedono di mostrargli il cartoncino col nome (che sarebbe la “ricevuta”). Non me l’ha mai dato.

Quando sono sul punto di rotolarmi giù per la discesa, sento una voce alle mie spalle che pronuncia la parola magica: “Kembali” (“Torniamo”).

E anche questa l’abbiamo scampata.

Arriviamo più o meno rapidamente a valle, tra una centrifuga e l’altra del mio apparato digerente. Siamo a poche centinaia di metri dalla meta, quando il peggio avviene. L’uomo, nonostante le mie accorate proteste, mi lascia redini del cavallo e mi intima: “Sendiri” (‘Da sola’).

Il volto dell’infermiera mi perseguita come lo Spettro dei Natali Passati e continuo a ripetermi in mente le sue parole come un mantra: “Don’t push yourself”.

Sette vite dopo, arrivo al parcheggio delle Jeep e mi barrico dentro senza fiatare.

Mentre con calma arrivano anche gli altri (non si capisce come mai, nonostante quello che ci succede arriviamo comunque sempre per prime) chiediamo alla guida dove siamo diretti ora, sperando di udire la parola “breakfast” (in tutto ciò siamo a stomaco vuoto). Ma la parola che arriva non è quella attesa: “Savana”. Che nell’immaginario giavanese sarebbe la brulla distesa alle pendici del vulcano adibita a set fotografico per turisti. Dieci minuti di tempo per dimostrare di essere stati in un posto degno di nota e far finta che si abbia avuto il tempo di goderselo come si deve.

Dopo questa grande farsa, ci ritroviamo di nuovo a bordo: “Ke mana sekarang?” (“Dove andiamo adesso?”). Incalzo la guida come un reporter d’assalto. Neanche questa è la volta giusta: “Pasir”. Che letteralmente significa “distesa di sabbia”. Vai a capire che è.

Lo scopriamo a breve. Dopo il giro giro tondo della “savana” intorno al cono vulcanico, il tizio si ferma in una landa ancor più desolata, con delle dune di sabbia nera, e ci intima di scendere: “Photo-photo”.

Ancora.

Dopo altri dieci minuti di tensione mista a finti sorrisi all’obiettivo, la gita giunge al termine. Torniamo quindi all’albergo. Ma non al nostro, a quello bello.

Vedendo che tutti si accingono a fare la famigerata ‘breakfast’ ci accingiamo a fare lo stesso. Ma non possiamo, perché ce l’abbiamo all’altro albergo. Chiediamo dunque, mosse da ragioni che apparivano irrorate dal lume del senno, che la guida ci riportasse al nostro albergo.

Non può.

Ricominciamo le tribolazioni.

Dopo minuti di proteste e domande non risposte, gettiamo la spugna. Dobbiamo aspettare che gli altri facciano i loro comodi, stando lì a tirar gola, per poi tornare solo quando hanno finito. Tutto ciò non ha senso.

Dopo continuative pressioni a distanze di tempo regolari e sempre meno distanti l’una dall’altra, otteniamo di farci portare indietro.

Una volta rimesso piede al nostro hotel privato, usufruiamo della beneamata “breakfast”: toast con marmellata d’ananas, omelette bollita e macedonia di cocomero… e ananas.

Decisamente ananas.

Poi è ora del numero di punta giornaliero: perdo il cellulare.

Non trovandolo in nessuno dei posti in cui lo tengo di solito, mi do ad una ricerca forsennata in tutto l’hotel, chiedendo ripetutamente alla reception e all’autista di aiutarmi nelle ricerche.

Non c’è traccia.

Poi un ragazzo dello staff fa una cosa sensata: prova a chiamarlo.

Il numero è staccato, me l’hanno rubato, perfetto.

Dopo aver rischiato la vita in un viaggio in treno di otto ore, aver trascorso un pomeriggio in un ospedale antidiluviano, aver perso il posto che avremmo avuto di diritto in un posto da favola con tutte le conseguenze del caso, in effetti qualsiasi altro colpo di scena a questo punto sarebbe stato deludente.

Se fosse un film suonerebbe tipo: Mamma ho perso l’albergo. E mi hanno rubato il cellulare.

Mi chiudo in lutto sul sedile posteriore dell’auto, in attesa solo di raggiungere l’aeroporto e levare le tende da quel posto di sventure.

Ma c’è un problema (quasi che ormai ci aspettassimo di fare qualcosa senza impedimenti di sorta): l’austista non si trova. E sì che gli avevamo chiesto massima puntualità, dato che abbiamo un aereo alle 16.00 (per lui 15.00), sono già le 11.00 e dicono ci vogliano quattro-cinque ore di tragitto.

Dopo varie chiamate riescono a rintracciarlo e forse possiamo partire.

Invece no.

Hanno le idee abbastanza confuse.

Vociferano qualcosa circa una stazione di bus per Surabaya.

Ci opponiamo con tutte le nostre forze. Nel pacchetto dell’agenzia era chiaramente specificato il trasporto in macchina, su questo non ci piove. Non intendiamo perdere altro tempo e pazienza, abbiamo perso abbastanza cose, mi pare.

Altri innumerevoli minuti di chiamate, attese e incomprensioni dopo, ce la facciamo. L’autista cede il posto ad un collega. Ma lo stile di guida è lo stesso: corsie contromano e il gioco allo “schiva il Tir più grosso ad alta velocità”. È tutto un grande videogioco, non può essere vero.

Alla fine arriviamo all’aeroporto alle 13.40. Non so se essere contenta o indignata per l’ennesima informazione falsa. Ci abbiamo messo un’ora e quaranta minuti, a fronte delle quattro-cinque estimate.

Ora siamo qui ad attendere l’imbarco del volo per Lombok, indecise se sgranare il rosario o incominciare ad accaparrarci qualche vita per iniziare il livello successivo.

L’incoscienza
Il cavallo
L’apprensione
Trova la macchina
La benedetta caldera del benedetto vulcano