Don’t push yourself

Capitolo 3 – “Dada Jawa!”

«Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati

Perché peccando ho meritato i tuoi castighi […]».

 (Atto di Dolore)

26 dicembre 2013

Aereo per Mataram (Lombok)

Poche (relativamente) ore dopo

Mettiamo piede all’aeroporto di Surabaya cariche di bagagli e cattivi presagi.

Si avverano tutti.

Per prima cosa andiamo alla ricerca del banco per il check-in.

Dopo diverse vasche a rimbalzo da una direzione all’altra, capiamo che era esattamente di fronte a dove eravamo entrate. Dunque, ci premuniamo di eliminare i liquidi.

Inutilmente.

Passa di tutto.

Massima sicurezza.

Procediamo quindi ad effettuare il controllo documenti e ad imbarcare il bagaglio. O meglio: a credere di poter imbarcare il backpack gigante della Decathlon come bagaglio a mano (un altro degli impeccabili consigli dell’agenzia).

Ovviamente non passa, dobbiamo andare ad un altro banco per metterlo in stiva.

Dopo aver pagato una tassa di 40.000 rupie e aver discusso inutilmente con la hostess riguardo cosa sia una targhetta con nome e indirizzo, ci andiamo a buttare da Starbucks davanti ad un caffè caldo e a meditare sul nostro destino (infausto). Guida alla mano, scopriamo, tra una cosa e l’altra, che l’aeroporto di Mataram non è così vicino a Senggigi (il posto da cui partono le imbarcazioni per le isole Gili) come credevamo. Impallidiamo all’idea negli ennesimi trasbordi macchinosi e pieni di insidie che ci attendono.

Ma il più bello viene al gate: numero 1 secondo il biglietto, numero 2 nella vita reale.

Già capiamo l’andazzo.

Dato che rimane mezz’ora all’imbarco, decidiamo di andare a prendere del cibo take-away adocchiato nel corridoio. Riso bianco per me (per metter freno ad eventuali iniziative private del mio sistema digerente) e involtini di pollo e verdure da dividerci.

Mettiamo prescia inutilmente all’inserviente e a noi stesse, per scoprire che il volo ha a accumulato mezz’ora di ritardo.

C’era da aspettarselo.

Alle 16.30, credendo che sia finalmente giunta l’ora, ci accodiamo alla fila ma l’assistente di volo ci ferma: “Belum” (‘Non ancora’). È quello per Denpasar.

Chiediamo spiegazioni e viene fuori che il volo è in ritardo di un’altra mezz’ora, che in tutto fa un’ora buttata.

In preda a crisi mistiche, decidiamo di andare a farci un giro, per evitare di uscire di senno. Ma è proprio dieci minuti dopo che, uscendo da una libreria, udiamo dall’altoparlante qualcosa che suona come “Mataram”. Tendo l’orecchio per distinguere ad una ad una le cifre del codice del volo, rigorosamente annunciate in indonesiano: “Satu-lapan-tuju-dua” (1872).

È il nostro.

Scatta la corsa forsennata. Ripassiamo l’ennesima volta sotto il metal detector, senza un valido motivo dato che passa anche gente con dei machete, e corriamo verso il Gate.

Poi corriamo verso un altro gate.

L’hanno ricambiato.

Finalmente troviamo il nostro posto nel mondo, accodate nella fila per l’imbarco. Peschiamo a piene mani tra i box merenda e i ‘succhi d’acqua’ (confezioni di acqua in plastica con cannuccia) accostati con poco garbo al muro oltre il banco d’imbarco e ci avviammo alla navetta.

Dopo pochi metri di pista l’amara sorpresa: l’aereo. Più che altro lo stuntman dell’aereo, reperito dal set di una delle peggiori produzioni di Indiana Jones.

Non può essere vero, questo è troppo.

Ormai svuotate di ogni benché minima rassicurazione e conforto, ci rassegniamo a qualsiasi cosa ci possa attendere. Nella tasca del sedile, un opuscolo di preghiere in lingua indonesiana per ogni religione sbuca beffardo, mentre il neonato del sedile accanto starnazza più dell’aquila Garuda.

Una bimba poggia una mano sul finestrino gridando: “Dada Jawa!” (‘Arrivederci Giava!’).

Noi speriamo che questo arrivederci sia un addio alla sorte avversa che ci ha accolto a braccia aperte sin dal primo minuto di viaggio.

Invocation Card

27 dicembre 2013

Spiaggia di Gili Air

La fortuna comincia ad accorgersi che abbiamo intrapreso un viaggio di non poco conto.

Atterriamo on un’ora di ritardo, ma ormai non ci facciamo più caso.

Appena recuperato il bagaglio, ci fiondiamo a reperire un mezzo che ci porti da Mataram a Senggigi. Ci assalgono tassisti letteralmente da ogni dove. Ma noi non demordiamo e procediamo diritte fino al bancone dei biglietti del bus. Pare ce ne sia uno che partirà ‘a breve’ e costa solo 30.000 rupie a testa.

Più o meno quanto la multa sul bagaglio.

Incredibilmente, parte davvero ‘a breve’, quasi vorremmo protestare per il mancato disguido del giorno, ed è oltretutto dotato di pulizia e aria condizionata.

Cominciamo a sentirci quasi a disagio.

Mi siedo vicino ad una ragazza locale che parla benissimo l’inglese e comincia a darmi informazioni circa i posti in cui passare la notte a Senggigi. Ci accompagna per tutto il tragitto, fino al calare del sole. Notiamo che è la penultima a scendere, le ultime siamo noi. Quasi ci prende il panico quando ci lascia sole e cominciamo ad ideare modi per far capire all’autista dove ci deve lasciare. Ma ci pensa lei, assicurandoci che l’autista ci lascerà proprio davanti all’hotel da lei consigliatoci (sempre perché gli autobus non hanno fermate, è tutto lasciato al caso e alla fiducia).

Poco tempo dopo, quasi come un miraggio, appare l’hotel, l’autista si ferma e noi scendiamo ripromettendoci di fare un voto alla santa ragazza.

Scendiamo e chiediamo subito una stanza.

Non c’è.

Ora ricominciamo a ragionare.

Però, ci dice che ce n’è una nell’hotel di fronte, per 150.000 rupie a testa. La concorrenza qui non sanno proprio cosa sia.

Scopriamo con gioia che c’è il Diving Center proprio di fronte. Forse la fortuna si comincia a rendere conto della situazione. Ci facciamo una doccia che riporterebbe in vita gli antenati dall’oltretomba e buttiamo letteralmente i panni sporchi (neanche voglio riepilogare di cosa) nel secchio della spazzatura.

Al che, rimettendo in voga vecchie abitudini, andiamo a reperire cibo in batik e infradito.

Ci facciamo una vasca sulla strada costiera incappando in diversi personaggi, come il tipo della SIMPATI (la compagnia telefonica) che non capisce assolutamente ciò che vogliamo, finché non rinunciamo e ci teniamo la scheda che abbiamo.

Andiamo a prendere posto in una rumah makan (taverna), attirate dal profumo di sate ayam (spiedini di pollo) che sfrigola sul barbecue.

Il ragazzo addetto allo spiedo ci informa che il sate ayam è finito, l’ultimo era per i signori a fianco. In effetti avevamo cominciato a montarci troppo la testa.

Ripieghiamo su un cap cay (che mi azzarderei a definire una ratatouille asiatica) con verdure e frutti di mare, che si rivela meraviglioso.

Poi rovino tutto con una cosa immangiabile di cui non ricordo il nome.

Di base una frittata al sugo con pezzi di pollo galleggianti in superficie.

Finalmente a stomaco pieno, ci ritiriamo nelle nostre soffocanti stanzette (vedi à tariffa base à vedi à comfort rifotti al minimo sindacale) e piombiamo in un coma irreversibile fino al mattino successivo.