«Hampir malam di Yogya, ketika keretaku tiba…». (“E’ quasi notte a Yogya, quando il mio treno arriva…”)
(Sepasang Mata Bola, Mus Mulyadi)
26 settembre 2013
Ore 20.06
(Calcolando che in Italia sono le 15.06, ma poi va a capire)
Yogyakarta
Kampoeng Jawa Guesthouse, Jl Prawirotawan 40
Il volo per Giacarta è stato un incubo. O meglio, credo lo sia stato dato che ho vissuto in una condizione di dormiveglia mista a sprazzi di coma intensivo tutto il tempo.
Alle 1.05 di notte metto, o meglio, il mio ologramma mette piede sull’aereo. Io ero già morta di sonno, sicuramente. Le mie palpebre si chiudono da sole, faccio fatica a tenere la testa dritta, è da quarantotto ore che non chiudo occhio ma devo attendere che l’aereo decolli per poter reclinare il sedile, abbassare la tendina del finestrino, e crepare in pace.
L’aereo ci mette un’ora a decollare. Al che, senza neanche dare troppo credito al ragazzo indonesiano accanto a me che continua a farmi sorrisini e chiamarmi “Miss”, mi spengo.
Riapro gli occhi ad un orario indefinito e non comprendo affatto cosa stia succedendo. Ho ancora addosso gli stessi abiti da quando sono partita, ore fa, un giorno fa, o due, chi lo sa più. Il plaid col cuscino e il kit notturno della Qatar Airways (comprensivo di tappi, mascherina, spazzolino e calzini) sono caduti per terra. I miei occhi mi guardano dal riflesso del sedile anteriore sgomitando a fatica tra il baratro viola delle mie occhiaie. Il mio vicino sorride sempre, così come l’avevo lasciato, non s’è mosso di una virgola.
Non so che ore siano, ma evidentemente per loro è ora di colazione. Sento l’odore della carne e delle verdure sin da prima che estraggano il carrello portavivande e provo un brivido di terrore. Non staranno facendo sul serio. E invece sì. Noodles al pollo e verdure, “And have a good breakfast”. Mangio mio malgrado dato che ho una fame assurda e le mie barrette scarseggiano ma soprattutto non saziano. Durante il pasto parte la conversazione con l’amico del sedile accanto.
Finisce che mi invita a Bali.
Verso le tre del pomeriggio (ora locale) conquistiamo finalmente Giacarta. Non avrò fatto una traversata su una nave cargo della Compagnia delle Indie Orientali ma la sensazione è quella. In pochi minuti dall’atterraggio in aeroporto riesco a farmi spillare le prime rupie da un trasportatore abusivo per i voli nazionali. Il cartellino del cliché della turista occidentale cretina è stato vidimato.
La tizia dei controlli al Gate ride della mia cartellina portadocumenti e mi dà una pacca sul sedere. Ok, sono decisamente un popolo più espansivo di quanto credessi. Tra l’altro, rischio di imbarcarmi sul volo sbagliato, per una cosa che suonava come Paramban, ma che io ho confuso con Yogyakarta, senza alcun senso logico.
Credendo di aver trovato il mio posto nel mondo, ma soprattutto pace, mi siedo ad attendere la chiamata per l’imbarco, godendomi la vista di questo spettacolare aeroporto dalle architetture che richiamano le tipiche case giavanesi, immerso nel verde. Più che un aeroporto sembra un villaggio turistico.
Ma la pacchia dura poco, pochissimo.
Il tempo di farmi i fatti miei col WiFi e comincio a sentire avvisi insistenti… in indonesiano. Noto spostamenti, ma mi dico: “Non sarà niente di importante, lo direbbero in inglese”.
Attendo qualche altro minuto in preda ai dubbi più neri, quando il mio orecchio etnomusicologico percepisce, tra il marasma di cose incomprensibili, una parola che ricorda tanto il mio nome, ma deformato. “Non è possibile” – mi dico – “Perché mai?”.
Perché avevano cambiato il Gate, dunque l’imbarco si era quasi concluso e mancavo solo io, ma non avrei mai potuto saperlo.
Per fortuna, il mio istinto mi dice di andare al banco informazioni a chiedere delucidazioni e, manco il tempo di aprir bocca, uno stuart tutto agitato acchiappa il mio trolley rosa e comincia a correre facendo segno di seguirlo. Non credendo affatto a ciò che sta accadendo, mi butto con tutta me stessa in uno scatto olimpionico che, dopo trenta ore di viaggio e molte meno di sonno, ha decisamente del grottesco.
Faccio il mio ingresso trionfale nel velivolo della Garuda tra mille occhi puntati addosso e provo un profondo senso di vergogna e contrizione. Scivolo mesta al mio posticino e mi metto a guardare il panorama, per dimenticare. Parte Il lago dei cigni di Čajkovsky dagli altoparlanti e mi sento estremamente presa in giro. Dov’è il gamelan?
Il volo dura pochissimo, circa un’oretta, allietata tra l’altro da alcuni snack… Non credo di aver veramente mangiato un panino al cocco e pollo, forse è stata una fantasia del dormiveglia.
Voglio cancellare la dieta di oggi dalla mia vita.
Tra l’altro, con la storia del fuso orario ho anche saltato il pranzo perché, in pratica, sono arrivata a Yogyakarta alle sette di sera passate, ora italiana circa le 14.00.
L’atterraggio su Yogya è magnifico: dalla coltre di nuvole spunta il vulcano Merapi e poco dopo mille lucine cominciano ad apparire sotto di noi. È la città ma sembra una minuscola costellazione. In aereo spengono le luci e tutto diviene ancora più suggestivo.
La valigia arriva subito, contrariamente ad ogni aspettativa, la prendo e sono in balìa di me stessa.
E adesso?
Mi avvio verso l’uscita e sono invasa da schiere di tassisti in divisa vociferanti, pronti ad accogliere i turisti con frasi che suonano più o meno come: “Serve un passaggio?” ma in varianti diverse accavallando i loro timbri vocali.
Finalmente un po’ di sana eterofonia.
Glisso cortesemente ogni proposta inventandomi amici immaginari, fidanzati e ogni cosa mi venga in mente per dare ad intendere che ci fosse qualcuno ad aspettarmi.
Non ci credono minimamente.
Uno mi segue persino in bagno continuando ad indagare insistentemente circa la meta, il mio da farsi e via dicendo.
Questo è troppo.
Mollo la fila, riprendo le mie valigie gentilmente tenute in custodia dall’ennesimo aiutante sbucato fuori come un mirtillo nel sottobosco e, senza più curarmi di lor, neanche li guardo. Passo.
Anzi, sfreccio, diretta e sicura di me, non so verso dove, ma l’importante è farlo credere. Pare funzioni.
Seguendo il cuore e l’odore di riso fritto, approdo all’aria aperta. Sbuco, chi l’avrebbe mai detto, proprio sulla piazzola degli autobus per il centro cittadino, non potevo chiedere di meglio. Tuttavia, di vetture non c’è neanche l’ombra. Vedo scenari dubbi, crocicchi di persone appartate intorno a motorini, chioschi deserti dalle luci tremolanti e individui a caso fermi ad aspettare non so che.
Scopro presto che sono altri tassisti, quelli abusivi. Dentro di me so a cosa vado incontro, dunque faccio di tutto per non farmi fregare (ancora) e mi dirigo verso un interessante energumeno in baffetti e divisa color sabbia. Potrebbe essere anche un ranger forestale per quanto ne so, ma comunque la divisa ispira fiducia. “Excuse me, how can I get to Jalan Prawirotaman?” (via turistica nella quale avevo individuato tre o quattro homestay decenti su internet).
Silenzio.
Si avvicina un omino sorridente vestito di nero: “I know! Come with me!”. Me (che stavolta non ci ricasco, sono punta nell’orgoglio ormai): “Yes but… how much?”. Ci mettiamo d’accordo sul prezzo (che comunque so già che sarà il triplo del normale, ma in fin dei conti sono sette euro). Così lui carica i bagagli. Non sono affatto convinta di aver fatto la cosa giusta, ma ormai è andata.
Durante il breve tragitto (circa mezz’oretta) ho occasione di dare un primo sguardo alla città. In realtà vedo poco perché è buio pesto, qui diventa scuro sin dalle cinque di pomeriggio, pare. Ci sono parecchie luci di insegne pubblicitarie al neon (sin troppe), oltre a quelle dei veicoli che intasano ogni arteria e ogni angolo di asfalto, legale o meno che sia.
Capisco che il lato di guida (a sinistra) è decisamente l’ultimo dei problemi. Riconsidero seriamente l’idea di farmi un motorino.
Tra costruzioni basse che si tengono più o meno in piedi, spiccano bugigattoli dall’aspetto losco. Meccanici, lavanderie, taverne e altre svariate attività (assolutamente non riconoscibili al primo sguardo) appaiono confinate in baracche buie e semideserte, con persone sedute all’esterno (soprattutto per terra). I portatori di becak (risciò a trazione posteriore, guidati da omini anziani e macilenti che rischiano l’ultimo respiro ad ogni pedalata) sono accasciati in attesa all’angolo dei marciapiedi. È il caos più totale.
Il tassista parla bene inglese e ci intratteniamo in una conversazione standard turista – locale, che verte sui classici punti:
- Trova le differenze tra le due nazionalità considerando i vantaggi/svantaggi (sul traffico era brutta ma ho giocato la carta di Napoli).
- Calcio e macchine italiane (non so davvero cosa mi possa esser uscito di bocca).
- Consigli turistici (l’autista ha appoggiato la mia decisione di andare a Bali durante il “Merry Christmas”, ma soprattutto durante l’ “Happy new year”).
Mi scarica in una via che è molto più angusta e diroccata di quel che immaginassi, ma l’entrata della homestay sulla mia sinistra sembra invitante. Pago il tassista, entro e chiedo una camera. Miracolosamente ce l’hanno, la prendo a occhi chiusi (dispostissima a pagare anche in organi pur di mettere un punto fermo a questo interminabile viaggio di due giorni).
Quando entro tiro un sospiro di sollievo. La stanza è bellissima, con architetture in stile giavanese, pareti in mattoncini rossi, letto matrimoniale, coloratissimi infissi verdi, rossi e dorati ed ha addirittura il bagno, delle prese di corrente compatibili, l’aria condizionata e un televisore databile dal ‘95 in poi. Inutile dire che il sonno mi è passato, ma tenterò ad ogni modo di chiudere occhio in attesa domani mattina di avere notizie da Claudia, un’allieva del mio professore che vive qui da un anno e sarà la mia guida in questi primi giorni.
Selamat Datang di Indonesia.