Don’t push yourself

Capitolo 1 – Morte a Surabaya

“Qui era la prova: il dolore non era soltanto un fenomeno fisico da mettere sotto controllo con una pasticca. Addestrando la mente si poteva arrivare allo stesso risultato. […] Che fosse questo imparare nuovamente l’uso della mente qualcosa da mettere nelle valigie per non avere, tornando un giorno in Europa, solo vecchie storie di marinai da raccontare?”.

 (Tiziano Terzani, Un Indovino mi Disse)

25 dicembre 2013

Yogyakarta

Rudere di treno per Surabaya (Giava Orientale)

Età stimata: tre secoli

Prospettive di salvezza: minime

Pronte.

Attendiamo di partire in questo esemplare di macinino precoloniale, mentre casi di tutti i tipi sfilano davanti a noi con i loro variopinti articoli commerciali. Sembrano andare per la maggiore: kopi panas (bustine di caffè solubile legate con lacci ad un bollitore in latta, il tutto caricato in spalla tipo maschera rituale del Kerala) e bakso (polpette di scarti animali contenenti lo 0,1 % di vera carne, dall’aspetto gommoso e biancastro).

Una vecchietta più leggendaria che reale siede comodamente per terra sulla banchina, proprio in corrispondenza del nostro finestrino. Davanti a lei un rudimentale fornelletto, unico investimento della sua attività commerciale, la intrattiene abbrustolendo sate (spiedini di carne) mentre scruta il via vai di viaggiatori da sotto il suo caping gunung (cappello di paglia conico).

Su una cosa non c’è dubbio: è seduta più comoda di noi. Disposte a distanze regolari, tutt’altro che ampie, nello stretto corridoio in lamiera color grigio-verde scrostato, fanno la loro suggestiva comparsa: i sedili. Rudi panche in legno, con schienale in legno, rivestimento in pelle lisa e dura (a pari merito col legno). Tutto deliziosamente ton sur ton. Si vede che il color fogna faceva particolarmente tendenza al tempo in cui l’imperatrice Willelmina costruì il prima sistema ferroviario nelle Indie Orientali.

Il treno parte. Mentre l’aria condizionata mi uccide senza motivo (fuori faranno 20 gradi con pioggia e indosso già due giacchetti), campi di riso, alberi di banano e capanni sperduti sfilano sotto i nostri occhi come delle slide di un promo vacanze. Ma tutto ciò sta accadendo davvero. Fra si stende sul sedile davanti nel tentativo di recuperare i dieci anni di sonno persi in questi tre giorni, mentre bambini chiassosi si agitano come Hanoman nel fuoco sulla “panca” accanto e degli uomini in divisa da poliziotto passano a controllare i biglietti creando apprensione.

La robusta signora seduta di fronte a me, nel frattempo, tira fuori una bustina di plastica dalla sua borsa e mi offre gentilmente dei pezzi di tofu fritto contenuti all’interno. Sono le sette del mattino. Declino gentilmente l’offerta. Un venditore di pop mie (noodles istantanei) e kopi (caffè) passa ripetendo a loop i nomi dei due articoli creando uno scioglilingua improbabile: “kopipopmie kopipopi pokikopmie…” e via dicendo all’infinito. Potrei passarci l’intero viaggio.

Il treno si ferma ad una stazione gremita di gente e salgono altri venditori con articoli ancora più improponibili. Un venditore di giocattoli in legno sfila lungo la nostra corsia cercando di convincermi a comprare un modellino di barca in legno. Mi chiedo perché dovrei comprare un modellino di barca, sul treno. Tra l’altro, la barca è legata ad infausti ricordi (vedi diario finlandese). Fra deve cambiare posto dato che sono saliti i legittimi proprietari della sua “panca”, occupata abusivamente. Mentre sono totalmente rapita dalla sfilata di venditori che prende sempre più possesso del treno come personaggi usciti dal vortice di Alice nel paese delle Meraviglie (ora è il momento del suonatore di chitarra) Fra mi fa cenno di girarmi verso di lei: “Guarda dove ha i piedi”. Sposto lo sguardo sulle calze color écru della signora che le siede di fronte, placidamente infilate sotto il gomito di Fra, tra la sua coscia e il finestrino. Non posso fare a meno di scoppiare a ridere.

Quasi crederei che sia il massimo, quando un uomo in divisa ferroviaria passa spruzzando spray per ambienti sul pavimento, seguito dal venditore di cuscini in gommapiuma e da quello delle caramelle per la gola Tolakangin, che distribuisce in bustine colorate su tutti i sedili. Stessa cosa fa il venditore di album da colorare. Non c’è un attimo di tregua, si susseguono come marionette in pelle su uno schermo del teatro delle ombre. Questi però sono reali.

Seconda stazione. Una signora mi lascia un pacchetto di dolcetti sul sedile. Un’altra fa la sua sfilata sul corridoio delle meraviglie tenendo in bilico sulla testa una cassetta di krupuk (cracker fritti). Uno mi lascia un puzzle di robot sul sedile, sopra alla scatola di dolcetti. La roba si accumula paurosamente, la situazione mi sta sfuggendo di mano.

Il treno e le sue ‘panche
Esempio di venditore ambulante con vassoio delle meraviglie
Lo stornellista di bordo

25 dicembre 2013

Hotel Bromo (Probolinggo)

Molte e sofferte ore dopo

Abbiamo trascorso ore infernali, alcune delle quali nel pronto soccorso di fronte la stazione ferroviaria di Surabaya.

We wish you a merry Christmas, and a happy new year.

Sono intenta a scrivere e godermi il paesaggio quando qualcosa va storto. Un terribile senso di nausea mi assale, costringendomi a correre di gran carriera verso la kamar kecil (‘stanzino’, letteralmente: toilette). Credendo si tratti di una semplice botta di mal di treno (avevo tutti i motivi per pensarlo) quindi vado a risiedermi come niente fosse. Errore. Altri attacchi a catena si susseguono costringendomi a un divertente via-vai per il corridoio, tra occhiate di vario tipo che non mi soffermo a contemplare e il tira e molla con la borsa degli oggetti personali a Fra, al sedile dietro.

Ciò avviene in un crescendo di conati dal moderato all’impellente, accompagnati da falcate sempre più ampie e rapide nella mia staffetta bagno-sedile, che culmina in un fugone ‘sola andata’ da Guinness World Record, piegata in due tra lamenti agonizzanti. Il tutto per arrivare davanti la porta dello ‘stanzino’ (ormai avevo perso il conto delle volte) per scoprire che è appena stata occupata da un signore con un bambino. Il Karma ti viene sempre incontro nei momenti migliori. Imperterrita, corro fino al bagno dell’altro vagone.

Trovo una fila immane, ma sono disposta a tutto. In preda alle convulsioni e ai sudori freddi, riesco ad esclamare un agonizzante: “Saya sakit!” (“Sto male!”). I signori in coda capiscono subito la situazione e mi cedono cordialmente il posto. Non appena l’ospite spalanca la porta, non gli do tempo di fiatare e tramite gesti nervosi con l’unica mano libera (quella che non è sulla bocca) gli faccio cenno di muoversi. Non coglie. Tento di pronunciare un: “Cepat, cepat” (“Veloce, veloce”) sfruttando l’ultimo tratto di esofago disponibile, ma serve a poco. Il tizio rimane imbambolato a fissarmi, impassibile. Decido di prendere posizione. Entro e comincio a fare i comodi miei con la porta ancora aperta. A quel punto capisce e leva il disturbo.

Data la situazione, decido di trascorrere la seguente mezz’ora china sulla toilette in alluminio, godendomi il verdeggiante panorama dalla finestrella del cesso.

Mi viene in mente quella vecchia canzone che faceva: E guardo il mondo da un oblò, ma di certo, io non mi annoio un po’.

Quando esco trovo Fra prodiga come una volontaria di Medici Senza Frontiere, pronta ad accompagnarmi al mio posto, che alla luce degli ultimi sviluppi mi sembra più comodo di una poltrona in memory foam. Mentre percorriamo lo stesso corridoio a ritroso, le mie narici colgono odori di ogni sorta. Qualcuno sta mangiando del durian. È il colpo di grazia.

Le successive tre ore trascorrono in un trionfo di attività poco definite quali: coma profondo buttata sulla ‘panca’, contorniata da buste di plastica e gente fin troppo prodiga; brividi di freddo intensi e continuativi; propinazione di oli tradizionali il cui unico effetto è quello di accentuare il senso di nausea. Uno vuole darmi il Tolakangin (il balsamo di erbe naturali che utilizzano per curare i raffreddori). Uno pensa che abbia mal di testa, un altro che sia incinta, un altro che abbia il mal di mare… in treno (cfr. modellino di barca in legno del venditore ambulante, tutto torna).

È inutile tentare di spiegare i sintomi nel migliore indonesiano che riesco a tirar fuori, si sentono tutti medici fai da te e ognuno ha la sua fanta-diagnosi. Ogni tentativo di porre un freno al toto-cura è inutile. È il caos totale. Sono in balìa di chiunque. Riesco a percepire la mia voce pronunciare dall’oltretomba parole random in indonesiano misti a qualche: “Fra, ti prego, falli smettere”.

La povera Fra, dal canto suo, intenta a fare del suo meglio per a tener testa a quella cornice surreale, senza poter contare su mutua comprensione linguistica.

Quando ormai sono in pieno stato alterato di coscienza, al limite tra il viaggio sciamanico e una crisi mistica, a tremare e contorcermi tra fitte, sudori e svenimenti, arriva lui: il ‘medico a bordo’. Nel dubbio che sia quello vero o il capo di questa setta di cerusici erranti, decido di fidarmi (non che avessi molta altra scelta). Fatto sta che il giovane ragazzo mi salva la vita con la pillolina magica: l’anti emetico. Dopo aver assunto l’unica vera medicina somministratami in chilometri di tragedia, rinuncio alla chiamata dei cori angelici e cado in un sonno profondo.

Quando il treno approda alla stazione di Surabaya sono l’ologramma di me stessa. Fra mi sveglia come può e mi incita a recuperare le mie cose, alla meno peggio. Lascio a malincuore la felpa gentilmente prestatami da lei in preda ai drastici cali di temperatura corporea, che ho ridotto in condizioni disgustose. Quando credo che le tribolazioni siano finite realizzo, più o meno al terzo passo dalla porta del treno, che non mi reggo letteralmente in piedi. Mi accascio in un angolo tentando di recuperare un minimo di lucidità.

È in quel momento che la nostra guida del tour al Bromo (il vulcano di Giava Orientale che avremmo dovuto visitare la mattina seguente all’alba) ci viene incontro con un sorriso a trentadue denti, tutto vivace e pimpante, pronto per dare inizio all’avventura. Percepisco la sua espressione facciale mutare ad ogni passo che fa verso di noi e realizza lo stato in cui mi trovo. Nel frattempo, un’altra folla di volti ignoti si raccoglie intorno a me, e ricomincia la sagra dei guaritori autodidatti.

Non so come avviene, non ricordo bene, forse perché al limite dell’ennesimo svenimento, ma ad un certo punto mi ritrovo su di una sedia a rotelle, in direzione dell’infermeria della stazione. Mi fanno accomodare in un lettino, dicendomi di riposare. Non serve a niente, pretendo un dottore. Gioco le ultime stille di sopravvivenza insistendo su questo punto, finché non cedono e decidono di portarmi al rumah sakit (‘casa dei malati’, letteralmente: ospedale) che pare sia proprio dall’altro lato della strada. La guida ci accompagna fedelmente in questa impresa che sembra assai più ardua della scalata del Bromo.

Giunta all’ospedale non ricordo come, mi sdraio su un altro lettino e lascio tutto nelle mani di due giovani infermiere. Un parla anche uno stentato inglese, per la gioia di Fra, ma soprattutto, sembra competente, finalmente. Dopo aver appurato che la mia pressione è di un valore prossimo alla beatificazione (circa 40 bpm) mi iniettano una soluzione in endovena. Funziona.

Rimango ancora per un tempo indefinito sul lettino a riprendere colore e conoscenza (oltre che speranza) mentre Fra sbriga faccende burocratiche, tra cui pagamento del ticket e acquisto di bevande e cibi consigliati all’emporio accanto, sempre scortata dalla guida come un fedele bodyguard.

Quando sento i miei sensi riaffiorare come acqua corrente ad un’antica fonte disidratata, mi erigo sul busto e comincio a guardarmi intorno. Ad una prima ricognizione appuro che l’ambiente sembra sobrio e pulito. Poi guardo meglio e comincio a scorgere relitti di attrezzature che non hanno età (sempre su concessione dell’imperatrice Willelmina) e macchinari senza alcuna traccia di moderna tecnologia. Sembra di essere un set di un film di guerra ambientato durante la seconda guerra mondiale. Ma soprattutto, realizzo che sui lettini non c’è traccia di telo o copertura di ricambio. Spero che quello prima di me non abbia avuto malattie contagiose. Quasi vorrei tornare nel mio beato limbo di semi incoscienza.

Un tipo entra tenendo in mano, sospesa a mezz’aria, una bustina di plastica trasparente per cibi, chiusa con uno spago, colma di un liquido giallastro. L’analisi delle urine.

Finite le procedure, recupero i bagagli, i documenti e il senno e mi accingo ad andare alla toilette, prima di salire in macchina. Il water c’è. La carta, del resto, non è pervenuta, così come il sapone o una sorta di scarico. In compenso, c’è una bacinella colma d’acqua con pentolino di plastica annesso (il mandi) in pieno stile indonesiano. Provo invidia per Edward mani di forbice.

Svolti i miei bisogni alla meno peggio (tanto ormai non ho più nulla da perdere) torno a recuperare il tesserino sanitario e a congedarmi dalle infermiere. Poi getto un occhio sul nome registrato: “Fra, ti prego leggi”.

Al margine superiore del tesserino, in trionfanti lettere in maiuscoletto compare il mio nome: LARIA. E sto.

L’infermiera mi chiede come mai abbia un nome che suoni così indonesiano. Non mi va di perdere altro tempo, dunque assecondo e invento una romantica storia d’amore intercontinentale tra i miei finti genitori (o almeno uno di essi). Riesco a convincerla al punto che mi dice qualcosa come: “Ah, è per questo che parli bene l’indonesiano”. Ormai non so più cos’è reale.

Mentre sto per metter piede fuori da quell’ospedale e da tutta questa disavventura che mi riprometto di non ripetere mai più, la dolce voce dell’infermiera mi congeda con un monito (non so se per il viaggio o in generale per la vita):

“Don’t push yourself”

Ci torneremo.

Ci facciamo dunque altre quattro piacevoli ore di macchina (“due” per il tizio dell’agenzia) in direzione della nostra accommodation.

Ma più che altro è una serie di corse ininterrotte sul Blue Vertigo. Il tipo guida come un pazzo.

Si fa un buon 60% della strada contromano, superando disperato come un pilota della McLaren in netto svantaggio e rischiando un incidente mortale ogni 100 metri. Continuo ad ingurgitare stralci di pane in cassetta dolce per tentare di porre un freno al mio stomaco, non potendo porlo all’autista.

Arriviamo senza crisi di vomito o di panico, la prova, se non altro, che sia guarita del tutto.

Ci congediamo dalla guida dopo aver appreso con gioia l’appuntamento del mattino seguente: le 2.30 del mattino (“4.30” per il tizio dell’agenzia).

Ci impossessiamo della camera da letto come Abramo della Terra Promessa. Ma la pacchia dura poco. Il mio stomaco dilaniato e quello rimasto a digiuno (in tutto ciò) della povera Fra, ci richiamano all’attenzione. Gliela accordiamo, senz’altro.

In pigiama di Doraemon e Superga senza calzini (torniamo a vecchi fasti d’alta moda) usciamo in cerca di uno straccio di posto per mangiare. Ci accorgiamo presto, varcata la soglia del cortile, che l’albergo non è altro che un pendolo che oscilla tra una superstrada e il nulla. Baracche semi-chiuse e tir sfreccianti ad alta velocità nel buio totale.

L’apocalisse.

Camminando lato strada in totale assenza di una decente illuminazione, ma soprattutto di marciapiedi, tentando di non rischiare la vita più del limite giornaliero concesso (che è comunque già stato superato di molto) ci avventuriamo come due derelitte in cerca di un posto nel mondo in cui trovare pace.

La troviamo in un chiosco dimenticato ad un angolo della strada, gestito da una gentile vecchina che offre un’ampia scelta di riso bianco sordo o riso bianco sordo con soto ayam (la tradizionale zuppa di pollo). Invitate da una signora a caso seduta attorno al bancone con tutta la famiglia, ci convinciamo a prender posto. Il ragazzo del tavolo a fianco ‘pretende’ che mi sieda di fronte a lui. Lo accontento senz’altro. Ormai non ho più la forza di oppormi a nulla. Tra i vari tentativi di approccio e profferte di cibi ad alto rischio ricaduta coma emetico, riusciamo a trovare dei compromessi che non ledano i nostri diritti umani basilari, di ogni tipo. Dunque, ci riempiamo gli stomaci di litri di zuppa e scarti di pollo, accompagnati da riso bianco con lime (nonostante l’accorata resistenza della signora, che sosteneva servisse per lavarsi le mani e non come condimento).

Soddisfatte del pasto (più che altro devote a qualsiasi santo che ce l’abbia fatto trovare in quella landa desolata) torniamo al nostro hotel, una cattedrale nel deserto. In questo hotel ci siamo solo noi e la guida che, tra l’altro, non perde occasione di ricordarci l’appuntamento del mattino seguente (cioè poche ore dopo) nel parcheggio dell’albergo, alle 2.30.

Andiamo finalmente a coricarci dopo una giornata che ne racchiude altre cento, illudendoci di goderci il nostro agognato riposo.

Chiudi gli occhi con le paroline magiche che ancora risuonano nella mia testa: “Don’t push yours…”.