La casa della Sindhen

Prologo – Una relazione complicata

Viaggi di ricerca in Indonesia

«But every year, I somehow contrived to go back to Indonesia for a few weeks, staying in the same house, using the same cell phone, borrowing back the same motorbike, then wandering the provinces with the same old friends. I began to feel that the country was one giant Bad Boyfriend. […] With Bad Boyfriends you know full when it will all end in tears, and yet you keep coming back for more»

(Elizabeth Pisani, Indonesia etc.)

Molto spesso capita che si venga attratti da un luogo e ci si trasferisca con il buon proposito di scoprire magari, col tempo, qualcosa di più sulla sua cultura. A me è successo esattamente l’opposto: letteralmente folgorata dalla musica e dalla cultura indonesiana (approcciata grazie agli studi etnomusicologici e ai corsi presso l’Ambasciata Indonesiana di Roma) ho fatto di tutto per risalire alle origini di tanta bellezza, che provocava in me una sensazione di completezza, pace e serenità (come mai nessuna seduta psicologica o lezione di Yoga).

Sbrigate le dovute procedure burocratiche per ottenere visti, permessi e finanziamenti dalla mia università, sono dunque approdata ad un luogo che mi ha cambiato letteralmente la vita. Luogo: un termine che suona fisico, limitato, inadeguato a descrivere un’esperienza completa, alla quale tutti i sensi hanno partecipato in modo più totale e che ha causato modificazioni profonde nel mio intero essere ed ha influenzato il mio approccio al mondo e alla vita. Terzani sosteneva che: “Il Laos non è un posto ma uno stato d’animo”. Si potrebbe dire che l’Indonesia non è un luogo ma un sentimento, inteso come rasa, ‘sentire’, declinabile a diverse sfere fisiche e metafisiche, spirituali, mentali e musicali.

Il 25 settembre 2013 sono partita dall’aeroporto di Roma Fiumicino con valigia da più di trenta chili, piena per lo più di manuali di musica gamelan, libri sul wayang kulit (il teatro delle ombre indonesiano), vestiti da stagione tropicale (che si sarebbero poi rivelati largamente inadatti per la cultura islamica locale) registratore digitale Tascam, fotocamera digitale ed un groviglio di emozioni che occupava da solo i tre quarti del carico. Era il mio primo viaggio fuori dall’Europa.

Sola, completamente sola.

Mi aspettavano qualcosa come trenta ore di volo (un numero che non riuscivo neanche a quantificare nella mia mente) e due scali (Doha e Giacarta). Ho congedato mio padre alle porte d’imbarco piangendo a dirotto, come stessi andando a combattere in guerra.

Questo per ribadire che noi viaggiatori siamo meno spavaldi e coraggiosi di quanto facciamo trapelare dalle pagine dei nostri blog anzi, il più delle volte ce la facciamo sotto. Il fatto è che andiamo comunque perché siamo come i pazzi derelitti di Kerouac, quelli che “bruciano, bruciano, bruciano…” e finché bruci sei salvo.

Sarei dovuta rimanere in Indonesia quattro mesi, tempo di condurre la mia ricerca di Tesi Magistrale e tornare a casa. Allora quattro mesi mi sembravano un tempo infinito. Oggi, nel 2019, mi sembrano un’inezia. Anche questo è un regalo dell’Indonesia: la dilatazione della percezione spazio-temporale.

Sarà che a forza di fare avanti e indietro uno non ci fa più caso, tutto diventa relativo, di passaggio. Come se invece di salire su un aereo di qualche compagnia asiatica ci tuffassimo in uno stargate. I viaggi intercontinentali di questo tipo sono un po’ così, dei viaggi spazio-tempo. Fatto sta che io in Indonesia ci sono rimasta per sette anni. Ho alternato lunghi periodi in loco a sporadiche ripartenze per brevissimi periodi in Occidente, solo per sbrigare qualche faccenda e via, altre trenta ore di volo, altri loop spazio-temporali, alla mia adorata casa tra i campi di riso.

Nell’agosto 2015, tornata a casa (definitivamente, pensavo allora) per concludere il mio primo  lungo periodo di ricerca (che si era nel frattempo trasformato in un’esistenza parallela) ho scritto una lettera a dir poco drammatica, che suonava più o meno così:

Roma, agosto 2015

Me ne sono andata da due anni di vita in Indonesia come uno scolaro se ne va a casa da scuola con la certezza di tornarvi il giorno seguente. Non ho versato una lacrima, non un rimpianto, né desiderio di portare a termine qualcosa di incompleto. Ero pronta al peggio, una volta tornata a casa. Ho atteso la crisi, la depressione, il disorientamento, la nostalgia… ma in due mesi, nulla di tutto ciò si è manifestato.

Ho pensato che fossi abbastanza matura dopo anni di viaggi, partenze, addii, da non lasciarmi andare ai sentimentalismi. Ho pensato che, in fondo, non sarebbe stato un addio definitivo. Non ho neanche pensato così tanto, in effetti. Ho vissuto raccontando a tutti, me stessa in primis, questa bella favola di una terra lontana dove vive gente così diversa da noi, come fosse un sogno lontano nel tempo, sbiadito ormai e quasi confuso. Come non fosse il luogo in cui ho trovato la mia seconda casa, la mia seconda vita, la mia seconda me stessa.

Solo dopo poco più di due mesi mi ritrovo finalmente a mettere a posto le mille cose arrivate col cargo e con esse i pezzi della vicenda, quella vera, non la favoletta che continuo a raccontare. E per la prima volta, dopo poco più di due mesi, piango. Piango così intensamente rivedendo e toccando con mano le vere prove della mia seconda esistenza. É tutto vero.

Riponendo i miei vestiti da sindhen (cantante tradizionale) ne risento l’odore e la sensazione sulla pelle durante le nove ore notturne di performance, la musica, le persone che hanno condiviso con me quell’esperienza. É tutto vero.

Non avendo un vero posto dove riporli, mi ritrovo a ficcarli nel baule vicino a vecchi DVD di Sailor Moon. Tra le lacrime si fa posto per un attimo il sorriso: in effetti, anche la mia è stata un po’ una trasformazione, in quelle notti che in fin dei conti di magico non avevano niente (alla faccia di tutti i romanzieri ottocenteschi). C’era ansia, dolori lancinanti alle gambe, a volte delusione di non aver dato il massimo, senso di spaesamento, sonno, divertimento certo, impegno.

Erano notti reali, come i giorni, giorni nei quali mi trasformavo nell’altra me, anche senza bisogno di capelli finti e stoffe batik, e vivevo quell’altra vita che per molto ho pensato seriamente di voler sostituire alla prima. 

Non so se avrò più l’occasione di vivere un’esperienza simile e non so che dire per evitare banali luoghi comuni ed esotismi spiccioli su quella terra, perché non se li merita più di quanto già ne riceva in migliaia di resoconti di viaggiatori occasionali. Non dico che in questo momento vorrei essere lì, perché è giusto che io sia qui ora. Ma posso affermare che non vorrei esser stata da nessun’altra parte, negli scorsi anni.

Matur nuwun, Yogya

Terima kasih, Indonesia

Il primo novembre 2015 vincevo un Dottorato di Ricerca in Etnomusicologia. Inutile dire su cosa vertesse il mio progetto di ricerca: Indonesia. E, sempre come direbbe Terzani (che, se non si fosse capito, è uno dei miei scrittori preferiti) ho iniziato “un altro giro di giostra”.

Ora che anche questi altri cinque anni sono finiti (a causa della pandemia di Covid19 che mi ha costretta a tornare in Italia quasi in pianta stabile e ha riposto i miei sogni e speranze nello stesso baule con i DVD di Sailor Moon), sono arrivata alla conclusione paradossale che non vivrò mai in Indonesia ma che comunque ci tornerò sempre, almeno qualche mese l’anno, per un motivo o per l’altro. Perché ormai – lo dico con una frase da telenovela di second’ordine – è l’Indonesia che vive in me. Siamo un tutt’uno. Come scrive Elizabeth Pisani, è come una relazione complicata con un partner: sai che ti farai male, ma continui a tornarci.