«Appena si decide di farne a meno, ci si accorge di come gli aerei ci impongono la loro limitata percezione dell’esistenza; di come, essendo una comoda scorciatoia di distanze, finiscono per scorciare tutto: anche la comprensione del mondo. Si lascia Roma al tramonto, si cena, si dorme un po’ e all’alba si è già in India».
(Tiziano Terzani, Un Indovino mi Disse)
25 settembre 2013
Ore 14.04
Aereo della Qatar Airways posto finestrino
Da qualche parte sopra la Turchia
Siamo solo alla terza ora di volo e già ho all’attivo: una più che magra figura al banco check-in; una proposta di matrimonio; una conseguente finta storia coniugale; innumerevoli pietanze sconosciute in corpo.
Una partenza degna delle mie aspettative.
Si ringrazia in particolar modo il tizio dell’agenzia, che ha pensato bene di stamparmi sul biglietto un limite massimo di 23Kg per il bagaglio da stiva e 10Kg per quello da imbarco, dichiarando il falso. Fatiche erculee per tentare di far quadrare tutto al grammo e, appena mi appropinquo al check-in, scopro l’amara verità: 30Kg in stiva e 7 miseri Kg a mano.
Ergo, torniamo ai soliti fasti poco dignitosi: panni all’aria en plain air in mezzo all’aeroporto, tra frotte di turisti, code e scarrellamenti su e giù. Alla fine, solo grazie alla magnanimità dell’assistente di volo sono riuscita a passare con la bellezza di 35Kg di bagaglio imbarcato e poco più di 9Kg di bagaglio a mano. Tutto sistemato, saluto mio padre che gentilmente aveva prestato soccorso a tutto il pittoresco teatrino e mi avvio al Gate.
Prendo posto sull’aereo al mio bel sedile vicino al finestrino, un po’ più striminzito di quel che mi aspettassi, soprattutto se calcoliamo che dovrò passarci sei ore, fino a Doha. In dotazione ho un cuscinetto che contribuisce subito a conciliare il mio sonno arretrato (ho passato la nottata a fare la valigia) e un plaid sigillato in una busta di plastica. Sistemo i miei bagagli e prendo la guida dell’Indonesia con tutte le buone intenzioni di studiarmi per l’ennesima volta il piano ‘aeroporto-centro cittadino-hotel in cui passare la notte’. Non ho prenotato nulla, zero, sto andando totalmente alla cieca.
Per la prima volta viaggia per il mondo da sola e non ha neanche pensato di prenotarsi un hotel.
Il mio zelo organizzativo dell’ultimo secondo crolla brutalmente a causa di una botta di sonno incontenibile. Chiudo baracca e burattini e mi metto a fissare lo schermetto sul sedile davanti, sul quale è segnato l’itinerario. Taglieremo l’Italia in diagonale da Napoli a Taranto, continuando per i Balcani, Turchia, Libano e finalmente Qatar. Molto finalmente.
Dopo pochissimo tempo ho il piacere di fare la conoscenza con il mio compagno di volo, un simpatico indiano quasi coetaneo, che dopo poche domande di routine va subito al sodo sbilanciandosi in profferte matrimoniali. Appronto subito un finto fidanzato nonché prossimo sposo ingegnere (che nella mia testa dava credibilità alla cosa), sbracciandomi in gesti mirati esplicitamente a mostrare la mia bella fedina all’anulare sinistro (che in realtà è di mia madre). Tuttavia, lui non si scoraggia e tenta di continuare la conversazione facendomi domande ogni tanto, in un italiano Gaddiano. Un ‘pasticciaccio’ bruttissimo.
Alla fine cedo e gli concedo temporanea amicizia come si conviene ai compagni di lunghi viaggi. E così, tra una chiacchiera e l’altra a tozzi e bocconi e una sempre più difficile trama di relazioni familiari fittizie da portare avanti, inizia questo viaggio della speranza.
Scartate una serie di attività evidentemente impraticabili in quello spazio ristrettissimo, decido di guardare un film sul portatile e cominciare a dar forma al resoconto di viaggio. Sul più bello dell’Avvocato del diavolo, vengo interrotta dalla hostess con il carrello: il pranzo. Mi si aprono subito mille pop-up nel cervello tipo un computer che sta andando in crash e si cominciano a formare scritte tipo: ALERT! UNA MINACCIA È STATA RILEVATA.
Ci servono dei mini vassoietti di plastica con sopra porzioncine in miniatura di pollo in salsa non identificata, purea di patate, verdure miste tra cui intercetto fagiolini, piselli e verza, panino caldo, formaggino con cracker, quadratino di crostata di frutta, vaschetta di acqua, bibita a scelta (ho preso una Coca Cola per tirarmi su), caffè e cioccolatino. Era meno peggio di quanto mi aspettassi, in fin dei conti. Inutile dire che col carico da novanta del cibo sullo stomaco le mie palpebre hanno decisamente gettato la spugna e il film è andato a farsi benedire.
Ho passato due ore di coma profondo intorcinata tra la poltrona e il finestrino, con gambe sconfinanti nell’area del mio amico (tanto ormai avevamo rotto il ghiaccio con la storia del matrimonio) per poi svegliarmi a mezz’ora dalla discesa a terra. Mezz’ora durante la quale ho scoperto la formidabile esistenza del gioco di Timon & Pumba sul monitor.
Qualche ora dopo
Lo spettacolo all’atterraggio è stupendo. Sono le cinque di pomeriggio (le sei a Doha) ma il cielo è già tinto delle sfumature rossastre del tramonto. Una fitta foschia cela la città sottostante che dà proprio sul mare, sfrondata solo qua e là da qualche luce degli alti edifici che si stagliano fieri dipartendosi da sprazzi di agglomerati urbani. Tempo di scendere dall’aereo ed è già buio. Mentre discendo la rampa del velivolo mi sento catapultata sul set di un film. L’aria è densa e calda ma non c’è afa e si sta davvero bene. Soprattutto dopo la botta d’aria condizionata dell’aereo, che mi ha devastato l’intero tratto vocale.
Prendiamo un’interminabile navetta che porta fino alla struttura dell’area transiti e rifacciamo l’ennesimo controllo dei bagagli a mano. Stanca, meravigliata, ma sorprendentemente affatto spaesata, mi dirigo con fare sicuro verso il Gate 36.
L’ultimo. Non fa una piega.
Mentre sfilo per le navate di questo modesto aeroporto semideserto, mi trovo letteralmente immersa nel Medio Oriente. A parte quelle poche comitive di cinesi, coreani e giapponesi che ritrovi ovunque nel mondo, l’aeroporto è popolato per lo più da arabi con tuniche bianche e turbanti e donne con burqa semi-integrali. Non celo una certa apprensione, non ero mai stata in un contesto simile. Tuttavia continuo a camminare tranquilla senza dare nell’occhio, nel mio vestito bianco lungo con ricami balinesi color caramello, Converse dello stesso colore e giacchina bianca che copre le spalle. Più che una spedizione di ricerca sembra stia andando ad un aperitivo alle Maldive. Già capisco che dovrò riconsiderare il mio abbigliamento.
Trovato il Gate tipo caccia al tesoro, mi prendo un attimo di riposo sulle poltroncine, risistemo un po’ i bagagli e mi connetto al WiFi per riprendere i contatti col mondo e dare notizie del mio sbarco avvenuto. Dopodiché, ho la brillante idea di cercare una presa di corrente. Sorprendentemente, la trovo.
Dunque, ora, dopo aver amaramente rinunciato agli acquisti al Duty Free dato che non ho dollari né tantomeno valuta del Qatar, mi trovo buttata ad un angolo dell’aeroporto, seduta sulla mia bella valigetta rosa (sempre il massimo della professionalità) attaccata alla presa di corrente ad una colonna. Non credo che mi schioderò per un po’, l’attesa è lunga. Sono le 19.42 (ora locale) e l’aereo per Giacarta partirà solo all’una. Cosa farò è un mistero.
Ore 21.45
Sempre aeroporto di Doha
Ok, ho appena pagato due sandwich al tonno e una banana sette euro. Mi sento abbastanza derubata.
D’altronde, era l’unica alternativa al morire di fame dato che pare che in quest’aeroporto ci sia solo questo misero baretto oltre che due Duty Free, poco ‘duty’ e molto ‘free’ sui prezzi.
Credo mi abbia dato anche il resto in moneta locale. Truffata fino all’ultimo.
Il tempo qua non passa mai. Ho letto, scritto, passeggiato, usufruito del bagno più volte, finito di vedere il film lasciato in sospeso, approfittato a morte delle prese trovate in giro per caricare il computer. Ho persino imparato a contare in indonesiano: satu, dua, tiga, empat, lima… ma niente. Non so più che fare e mancano ancora tre ore. Mi chiedo cosa farò in dieci ore di volo.
Nel frattempo, uno vestito tutto di bianco tipo Sandokan è appena passato vicino a me. Aveva un falco vero, vivo, ancorato all’avambraccio.
Giacarta dove sei?
O forse dovrei dire… ‘quando’ sei!?