“Tutto a posto, un’altra giornata proficua nei grandi annali dell’insensatezza”.
(Lawrence Osborne, Bangkok)
1° luglio 2019
Aeroporto di Bangkok Suvarnabuhmi
Ore 15.45
Non ci speravo più, sono a Bangkok.
Solo con quattro ore di ritardo, una semi-indigestione (quattro pasti in dodici ore ma siete pazzi) e qualche costola incrinata grazie ai sedili ‘memory’. Nel senso che te li ricordi per tutta la vita come traumi non rimossi. Ho scampato l’invalidità grazie alla santa che mi ha lasciato il sedile vuoto a fianco per andare a mettersi vicino all’amica. Per non contare i momenti di turbolenza alla Sharknado.
Se non altro, questo ha parcheggiato subito.
Siamo atterrati a Bangkok alle 13.00, dovevamo essere qui alle 9.50. Meno male che non ho prenotato l’aereo per Chiang Mai, l’avrei inesorabilmente perso. Ma ora è meglio: devo attendere le 20.30 per prendere il bus notturno ad una stazione dall’altra parte della città, con più di venti chili di valigia a carico e un cielo arrabbiato che minaccia di rilasciare una scarica monsonica da un momento all’altro (non so perché so già che sarà il momento in cui uscirò da qui).
Dopo aver convertito 100 euro in 3.000 e passa baht thailandesi, averne spesi 1.800 tra SIM card con quota internet per un mese e massaggio di emergenza a SPA malfamata nei meandri dell’aeroporto – per riacquisire qualche facoltà motoria – aver ripescato la valigia e aggiunto l’ennesimo timbro sud-est asiatico al passaporto, ho finito le cose da fare.
Non sono neanche le quattro.
Calcolando che non voglio più vedere cibo almeno per altre due ore e non voglio dar fondo a tutti i baht che mi rimangono, penso che la cosa più saggia sia andare ad acchiappare un Grab (l’Uber asiatico) e vedere che cosa ha da offrire il Sombat Terminal, prima che il rinomato e temibile, delirante traffico cittadino del mostro Bangkok si scateni nell’ora di punta.
Ore 17.20
(Stesso giorno, credo, ma chi può dirlo ormai)
Bangkok, Sombat Terminal
Niente.
Il Sombat Terminal non ha da offrire proprio un bel niente.
Mi sono rifugiata da Starbucks.
Circa un’ora fa stavo chiamando un Grab da Suvarnabuhmi. Come pick-up point mi dava due opzioni: il parcheggio del primo piano o la piazzola davanti al Gate 8, al quarto piano. L’autista mi manda un messaggio per sincerarsi della mia scelta: “Send floor of four floor?”. Escludo il ‘manda piano’ e gli dico che sono a ‘quattro piani’. L’inglese sud-est asiatico mi era mancato.
Passo davanti ad un gruppo di monaci, teste rasate e tuniche arancioni, accampati sul pavimento con le valigie aperte ed esco nell’afa cittadina. È come entrare in una trapunta. Non è tanto il caldo – anche perché ha appena piovuto – ma si respira a fatica. È una delle città con il clima più orrendo al mondo. È una continua sauna in una raffineria.
Come usciamo dall’aeroporto scorgo dalla graziosa tendina color crema annessa al finestrino (gli asiatici e la cura dei dettagli pacchiani e superflui) un cartellone enorme con la foto del sovrano thailandese, accanto alla quale una frase recita: Long live His Majesty the King. Non so se mi provoca simpatia, curiosità o timore. Comunque è qualcosa che stona terribilmente con tutto il resto. Ma qui un po’ tutto stona terribilmente con tutto il resto.
Appena scorgo i primi taxi color fucsia, un camion rimorchio dipinto a tema Doraemon, il pullman turistico con le tendine rosa che svolazzano ai finestrini (tutti) ed il tipo con sei altoparlanti color verde pistacchio fissati sul retro del suo Van, sprofondo nel sedile e mi metto comoda a godermi il tragitto. Sono a casa.
Bangkok è come la ricordavo: grigia, afosa, umida, decadente, pacchiana, mostruosa, tossica. La osservo dall’interno di un igloo. Non riescono proprio a regolarsi con l’aria condizionata. Chiedo invano di abbassare di qualche grado. Alla fine indosso tutti i giacchetti che ho e spero di non ammalarmi. In questo forno industriale, sarebbe il colmo.
Alle cinque di pomeriggio siamo al Sombat Terminal, dopo solo mezz’ora, grazie all’autostrada che mi costa 775 baht, invece dei 630 preventivati dall’applicazione. Mi ricordavo che l’onestà non è tra i valori thailandesi, specialmente con i farang, i ‘bianchi’ (la versione dorata e buddhista dei bule indonesiani).
Il terminal è uno sgraziato edificio tra tanti che offre qualche fila di brutte e scomode sedie, un ATM spento e due chioschi malmessi. E monaci. Ancora monaci. Un sacco di monaci.
Quasi vorrei iniziare il mio stomaco al cibo thailandese ma dieci ore di pullman notturno sono troppe per sentirmi male. Filo dritto davanti ai ‘warung’ (i chioschetti di cibo, per dirla all’indonesiana) e punto lo Starbucks, trascinandomi la valigia tipo macigno di Sisifo, ‘nuotando’ nella densa aria pomeridiana.
Attraverso un canale – non so perché – valigia annessa. E niente, attendo le 20.00 con un sandwich senza né arte né parte, delle chips ai tuberi, un chai latte ed una fetta di torta al matcha. Maledetti non-luoghi ed i loro non-cibi. Sono passate poco più di ventiquattr’ore e ho ufficialmente perso l’orientamento culinario.