Altro Giro, Altra Corsa

Prologo – Un non-luogo o l’altro

“L’uomo assapora la sensazione di libertà datagli sia dall’essersi sbarazzato del bagaglio sia, più intimamente, della certezza di dover solo attendere il corso degli avvenimenti una volta «messosi in regola» grazie al fatto di aver intascato la carta di imbarco e declinato la propria identità”.

(Marc Augé, Non-Luoghi)

30 giugno 2019

Aeroporto di Istanbul

Ore 21.31

A quest’ora dovrei essere da qualche parte tra il Bosforo e la penisola arabica, a scorrere l’elenco dei film e a tentare di incastrarmi al meglio in quel che offre lo spazio vitale tra un sedile e l’altro.

Invece no.

Il volo delle 20.15, ora stimato per le 22.45, appare ancora come un miraggio e Bangkok lo è ancora di più.

Dato che non ho molte alternative, decido che intanto è meglio fissare su carta ciò che è successo finora, il che mi darà un bel po’ da fare.

Che il viaggio non sarebbe stato liscio ed indolore, in fondo, lo avevo intuito sin da quando ho messo piede a Fiumicino, alle 13.00 (ora italiana).

L’ho capito, più precisamente, verso le 14.45 quando, ancora in fila per l’imbarco al banco della Turkish Airlines (il check-in più lungo della storia) ho cominciato a chiedermi se due ore e mezza di anticipo fossero sufficienti ad evitare di perdere un volo pianificato da mesi.

L’intuizione ha cominciato a divenire sempre più pericolosamente prossima alla certezza quando alle 15.00, mentre ero seduta al Gate ad attendere l’imbarco – specifico, beatamente per i fatti miei – si è avvicinata una signora macilenta chiedendomi con aria dolce e affranta se potessi custodirle il trolley mentre lei si recava alla toilette. Quel briciolo di buonsenso rimastomi ha cominciato a urlare come un condannato a morte dalle segrete della mia mente che non era una buona idea. Sono le prime cose che si imparano: niente caramelle dagli sconosciuti per strada, niente bagagli altrui negli aeroporti. Ma niente, alla fine le ho detto di sì.

Dopo venti minuti ad attendere la signora in preda a dubbi esistenziali e teorie complottiste ho cominciato a maledirmi un po’ e a pensare di levarmi di dosso la responsabilità di un possibile attentato. Se viaggi nel ventunesimo secolo ci sono alcune cose che non puoi permetterti, tipo essere altruista, tipo credere al prossimo e alla sua buona fede. Nella migliore delle ipotesi, avrei dovuto guardare la signora con uno sguardo duro (o forse non guardarla affatto), indossare un fintissimo sorriso forgiato dal miglior anglosassone e dirgli un qualcosa che, come la metti la metti, suonasse come un ‘no’ secco.

Al quarantesimo minuto decido di dare più retta alla cruda realtà della mia epoca che alla romantica solidarietà del viaggiatore. Con la coda tra le gambe, mi reco al banco degli imbarchi e dico papale, papale alla hostess: “Una signora mi ha lasciato la valigia dicendomi che doveva andare in bagno, ma non torna da quaranta minuti”. Le indico il trolley, mi bevo la ramanzina da adolescente sprovveduta e vado a mettermi in fila, lasciando che se ne occupi chi di competenza.

Quando già mi vedevo i titoli in prima pagina: “Sventato attacco terroristico all’aeroporto Leonardo da Vinci di Roma”, recanti il mio nome, ecco che torna la signora sorridente piena di “thank you”. A quel punto la bomba gliel’avrei tirata io.

Mentre mi strappa il biglietto, la hostess commenta con tono da baretto: “Ma quella sarà annata a fa’ shopping, vedrai”.

La mia uscita trionfale da Fiumicino.

Dati i presupposti, non è che mi aspettassi molto dal resto del viaggio.

Tralascerò il fatto che mi sono seduta al posto sbagliato, facendo alzare due file di povera gente già sbragata e assestata poco prima del decollo.

Ero consapevole che un’ora e mezza di transito per i voli intercontinentali è un inutile martirio autoinflitto e richiede spirito di coordinazione e preparazione psico-fisica non trascurabili. Ma anche qui… click. La tua prenotazione è confermata. E che qualche divinità asiatica ce la mandi buona.

Non me l’ha mandata buona affatto. Anzi, il karma ha deciso di levarmi l’unica cosa che davvero poteva fare la differenza: il rispetto svizzero delle tabelle orarie.

Alle 18.58 l’aereo atterra sulla pista del nuovo aeroporto di Istanbul… .

Alle 18.59 sorrido compiaciuta dicendomi che siamo in perfetto orario, non c’è motivo di preoccuparmi. Ammiro la distesa di moschee sottostante con le loro torri sottili e appuntite dei minareti che bucano il cielo, le cupole bianche e mi viene in mente la distesa di pagode dorate all’atterraggio su Yangon, qualche anno fa. A ognuno i suoi culti, a ognuno le sue topografie.

Alle 19.10, al quinto giro di pista, comincio a chiedermi se entro le 19.15 riuscirò ad essere fuori da questo velivolo, contemporaneamente all’apertura Gate del volo successivo.

Alle 19.17 mi chiedo quanto diavolo ci vuole a parcheggiare un aereo.

Alle 19.25, dopo l’ennesima curva panoramica tra le dune, dimostro evidenti cenni d’impazienza ed inizio ad importunare i vicini con domande che non gli competono.

Alle 19.35 mi alzo e chiedo alla hostess se ci voglia ancora molto, ho un aereo che parte alle 20.15. Mi dice che non sa come aiutarmi, devo chiedere al personale a terra. Se mai riusciremo ad arrivarci a terra.

Alle 19.40 raggiungiamo finalmente il parcheggio più lontano dell’aeroporto, dopo quasi tre quarti d’ora di safari. Mezzo aereo mi fa largo tra parole di conforto e incitamento, tutti hanno preso a cuore la mia causa. Tutti, tranne gli steward e le hostess, che continuano a rimbalzarmi gli uni dalle altre con una passività e una noncuranza da prenderli a schiaffi. Rivoglio la signora con la bomba.

Quando metto piede ‘a terra’ quasi ci piazzerei una bandiera. Ma non è ancora finita: ci sono le navette. Non posso crederci, è un incubo. Ovviamente la prima vettura mi chiude letteralmente le porte in faccia.

Mi metto buona ad aspettare che parta la seconda, con una coppia di toscani che tenta di infondermi del vano ottimismo. Ormai neanche guardo più l’orologio, già mi vedo a passare la notte a Istanbul tra reclami e toto-voli sostitutivi per Bangkok.

Alle 19.50 entro finalmente dentro l’aeroporto con i nervi a fior di pelle, un magone allo stomaco e fiotti di sudore compulsivi. Comincio ad acchiappare chiunque mi capiti a tiro con una divisa, sbattendogli il biglietto con su scritto ‘BANGKOK 20.15’ in faccia. Tra l’indifferenza totale (è un proprio un requisito per farti assumere) trovo uno sveglio che mi fa tagliare la fila dei controlli (ci mancava pure quella) e mi scorta al tabellone delle partenze per capire dove accidenti devo andare. Sempre comunque con poca voglia e un pizzico di risentimento. Do una scorsa veloce ai voli e mi piglia un colpo: BANGKOK DELAYED 22.30. Rimango interdetta, non sapendo se è più un “grazie al cielo!” o un “santo cielo!”. Butto là un tentativo di ironia allo steward: “Well… I guess I have time now”. Lui se ne va senza proprio batter ciglio.

Il mio ingresso trionfale ad Istanbul.

Calcolando che sono le 20.00 passate, decido che in fin dei conti è un “grazie al cielo!” e vado a riprendere possesso delle mie facoltà vitali nell’area relax. Mi dico di approfittarne per mettere il cellulare in carica ed utilizzare il WiFi.

Il WiFi.

Dopo aver armeggiato dieci minuti buoni con il sito dell’aeroporto (che si ostinava a darmi la pagina in turco) capisco come funziona la faccenda. Bisogna iscriversi al sito per ottenere 15 minuti di WiFi in modo da poter scaricare l’applicazione dell’aeroporto, compilare un’altra iscrizione dettagliatissima (manco stessimo entrando nell’Area 51) e avere così diritto ad un’ora di connessione. È tutto folle, completamente.

Passo la successiva mezz’ora a giocarmi il mio prezioso tempo online mandando note vocali a tutti per lamentarmi delle compagnie aeree turche. Una signora seduta vicino a me, che non parlava affatto l’italiano ma che al quarto audio aveva comunque ben presenti tutti i miei problemi esistenziali, mi consiglia di farmi dare il vaucher per il pasto gratis, concesso a causa del ritardo. Interrompo quindi il rigurgito di malcontento e mi dirigo verso il banco informazioni.

Chiedo alla ragazza in fila davanti a me se abbia finito il suo turno, e ottengo uno: “Yes, I have done, but he is useless, he doesn’t help you”. L’uomo dietro al bancone non sembra voler smentire le accuse e si limita ad indicarmi, passivamente e svogliatamente, il banco della Turkish Airlines poco più avanti. Ottengo finalmente il mio vaucher da altri due indolenti rimbalzi di personale e un’informazione mal detta circa il dove andare al riscuotere il pasto.

Dopo una vasca a vuoto nell’area transiti torno dalla signora, che finora mi pare la più competente in tutto l’aeroporto. Mi dice che ho la scelta tra tre ristoranti tra cui una cosa che suona come POPEYES.

Mi rifaccio un’altra vasca tentando di raggiungere il Popeyes, adocchiato in lontananza, ma non so come raggiungerlo. C’è una barriera che divide due aree dell’aeroporto ed il Popeyes è in quella a me preclusa.

Rivado ad importunare chiunque, steward, addetti ai vari banchi, negozianti. Mi sono stufata, voglio che qualcuno mi dia retta. Alla fine ne vengo a capo. Il Popeyes che s’intravede come un’oasi lontana è quello dell’area voli domestici ma ce ne dovrebbe essere un altro – ben nascosto – anche nell’area voli internazionali, dove mi trovo io.

Alle 21.00 mi avvio verso il gate F19 con il mio pacchetto di pollo ultra-fritto e patate finte ipercaloriche. Non mi va davvero e non sono una fan del pollo fritto. Odio i fast-food. Ma era comunque un risarcimento ai danni morali e alla fine di  tutta questa maratona dovevo pure cavarci qualcosa.

Mentre passo da un tapis roulant all’altro sul lunghissimo corridoio che collega i Gate dell’ala F, realizzo che il ritardo stimato è più che un “grazie al cielo!”. Non ce l’avrei mai fatta a prendere il volo in tempo con tutti questi chilometri di corridoi.

Mi siedo tra una ragazza con la chitarra e una in pigiama e ciabatte. Chiaro segno che siamo già entrati nella parte ‘intercontinentale’ del viaggio, dove più sono lunghe le tratte e più le situazioni sono ‘casalinghe’.

Guardo il tabellone: BANGKOK 22.45. Ora però cominciamo ad avvicinarci al “santo cielo!”. Mi rassegno al mio destino e addento il pollo senza pietà, entrando a pieno titolo nel trittico familiare.

“Per qualche ora – il tempo di sorvolare il Mediterraneo, il Mar Arabico e il golfo del Bengala – sarà solo” (Augé, 2018: 31).