Altro Giro, Altra Corsa

Capitolo 2 – Le città-mondo e le mondo-città

Due giorni di viaggio
I non-luoghi le non-persone
Due aerei, due scali
I disguidi
Due nazioni, due continenti
Due ore di ritardo
I loop temporali, la solidarietà
Dei viaggiatori solitari
Che sanno
L’importanza del condividere uno spazio.
Quattro, otto, tante più
Le ore in aeroporto
Dieci ore di bus notturno
Dalla città alla campagna
Dal centro al nord
Dell’Asia, del mondo
I monaci nelle tuniche arancio
La questua delle sei del mattino
Le baraccopoli
I pasti chimici
Umido, sporco, fritto
I colori male assortiti
Alfabeti incomprensibili
Truffe, conversioni di valuta
I sorrisi falso-cortesi
Incensi e frangipani
His Majesty the King
La Thailandia e il suo sovrano
Timbri sul passaporto
E assise sui troni d’oro
Strade, case, templi, volti.
Tutto il mondo è un paese
Ed il paese il mondo
Città-mondo e mondo-città
Essere soli e non esserlo
Mai
Chiang Mai
Chiangk-Hong
Chiang-Rai
Chiang-Kan
Chia-mala come ti pare
È comunque un’altra tacca
È comunque un’altra mappa
Un’altra vita
Comunque è qualcosa
Da raccontare
Comunque è
Andare.

1° luglio 2019

Bus per Chiang Mai

Ore 19.06

Ritorno al Sombat Terminal rigorosamente via canale, sempre trascinando il morto sulle ruote consunte. Entro e mi trovo davanti una receptionist dal volto grottescamente sbiancato e i capelli giallo limone. Il Michael Jackson thailandese in un museo delle cere. Neanche a dirlo, mi rinvia ad un altro banco, dove una delle signorine è intenta a congedare a mani giunte un gruppo di monaci. Dietro le sue spalle, in una cornice rettangolare di legno, una foto del re. Anche qui. Monaci e re. La mia visita in questo paese potrebbe concludersi qui. Le mostro la prenotazione e mi rifila uno scontrino pieno di letterine thailandesi. La guardo con un: “Ma seriamente?” stampato in faccia. Mi incespica un: “Platform one, bus number…”. Ci rinuncia e me lo scrive a penna: 18-13. Qualsiasi cosa significhi, me lo faccio bastare.

Mi dirigo ai parcheggi dei pullman. Sono solo io e persone thailandesi piene di pacchi, cartoni e bustoni della spesa, che attendono sedute su sedie di plastica rosse e bianche. Due tipi tengono in braccio due paffuti cagnolini color caramello, identici. Sono evidentemente stati fonati con cura, e sono chiassosissimi. Guardo i nomi delle destinazioni nella fila dei veicoli parcheggiati: Thung Chang, Chiangk Hong, Chiang Mai, Chiang Rai. Ho capito che nel nord della Thailandia se vai in qualche posto c’è comunque un Chiang di mezzo. Forse vorrà dire città, tipo il kota indonesiano.

Arriva un altro pullman con scritto Chiang Mai, numero 18-12, che mi mette non poco in difficoltà. Comincio a fare dentro e fuori tentando di intercettare una faccia significativa a cui chiedere informazioni. Alla fine mi risiedo e attendo qualche cenno del conducente o del destino, sono comunque ancora le 20.00.

Arriva prima quello del destino. Una giovanissima ragazza thai seduta a fianco a me comincia ad attaccare bottone in inglese. Ha voglia di fare pratica e non gli pare vero di aver beccato una straniera in quel posto. Ovviamente danno per scontato che tu sia un parlante madrelingua, indipendentemente dalla tua nazionalità e formazione. Una faccia un po’ più pallida e automaticamente sei uno IELTS 9.5. Un’altra magia del sud-est asiatico.

La mia prima conoscenza thailandese è una studentessa della Mahidol University di Chiang Mai che sta tornando a casa da una vacanza a Phuket. Un po’ come un milanese che torna dalle vacanze in Puglia. Loro però tornano da Phuket! Le dico che sto andando anche io a Chiang Mai dalla mia collega Eva, anche lei studentessa della Mahidol.

Mi confessa che neanche a lei piace Bangkok. E a chi piace? Però gira che ti rigira finiamo sempre tutti qui, in un modo o nell’altro.

Vedo che il bus 18-12 sta per partire e mi avvio con la mia comare a caricare il bagaglio, dando per scontato che sia quello giusto. Stanno caricando ogni sorta di pacchi e cartoni con disegni di elettrodomestici. La solita carovana. Mentre si passano scorte di ventilatori sufficienti per una centrale eolica, sento la ragazza parlare in thai al conducente e qualcosa mi dice che parlano di me. Mi fa cenno di mostrare il biglietto con faccia preoccupata, non è buon segno.

È il bus sbagliato.
E ti pareva.
Non so se le devo la vita o solo una perdita di tempo. Mentre seguo con lo sguardo il braccio del conducente che indica il lato opposto della stazione, dove dovrei attendere il mio pullman (quello vero) un signore non vedente si fa largo tra la folla. “Chiang Mai?”. Gli controllano il biglietto e lo aiutano a salire. Anche i non vedenti che viaggiano non accompagnati riescono a beccare il pullman giusto al primo colpo. Io no.

Partono i convenevoli con la ragazza. Abbracci, baci sulla guancia e: “See you in Chiang Mai”, come fossimo vecchie compagne. So già che probabilmente non la rivedrò mai più.

Attraverso la stazione e chiedo al primo uomo in divisa intento a sbracciarsi tra i veicoli. Dà uno sguardo allo scontrino volante e approva. Si, ma cosa? Non lo sa neanche lui.

Mi dice di andare ad attendere nella sala interna, piena di sgangherate poltroncine colorate e priva di aria condizionata. Quando troppo, quando niente. Io ho addosso due giacchetti, in previsione del solito inverno siberiano da bus notturno sud-est asiatico. Mi siedo cercando di rimanere calma e fiduciosa, nonostante non mi fidi affatto.

Alle 20.22 comincio a perdere la calma. Vado a chiedere ancora. Il tipo, sempre convintissimo, mi fa cenno di attendere, agitando le mani in modo sbrigativo.

Alle 20.26 vado a pretendere una risposta concreta. Stavolta guarda davvero lo scontrino. Mi dice che devo andare all’altro parcheggio. Di nuovo.

Vado a reclamare da Michael Jackson che mi rimanda alla “platform 1”. Mi sto per innervosire.

Mentre sono intenta a trascinare il sarcofago su e giù per i gradini l’ennesima volta, ma con qualche imprecazione in più, mi vedo passare davanti il bus 18-13. Intorno a me scorgo altri due o tre stranieri in attesa. Non c’è dubbio, è lui. Chi altro prenderebbe il bus di categoria VIP con posti singoli totalmente reclinabili, per il prezzo – ragionevole per noi, per loro un po’ meno – di una trentina di euro? Mollo il bisonte al povero autista e salgo a bordo accolta da un effeminato steward in camicia bordeaux, pantaloni grigi da completo e cravatta di un rosso che cozza totalmente con quello della camicia. Perché non riescono ad abbinare i colori?

Mi metto ad armeggiare interminabili minuti col sedile prima di capire come si allunga. Alla fine me lo sbraga gentilmente la signora a fianco. Il sedile promette bene, nonostante sia di taglia thailandese sembra ampio e comodo. Comunque meglio dell’aereo. Ci danno in dotazione cuscino, coperta, acqua e paurosissimi snack color rosa shocking.
Finisco di armeggiare con braccioli, schermo, borse e trovo pace. Non posso crederci che sono partita ormai quasi due giorni fa da Roma, sto per affrontare l’ennesima traversata epica e ancora non ho trovato un approdo e un letto vero.

Il tipo effeminato in divisa acchiappa un microfono – come se servisse, ci saranno quindici posti in tutta la vettura – e comincia a dare informazioni. In thailandese. Qualsiasi cosa succederà da qui a domani mattina conterò sulla vicina.