La casa della sindhen

Capitolo 6 – Ricognizioni

«But everything I learned made me more aware of how unknowable the country was. Indonesia is forever curdling the expectations».

(Elizabeth Pisani, Indonesia Etc.)

29 settembre 2013

Ore 13.10

Veranda (che ormai è il mio studio)

Tra una cosa e l’altra, vado a dormire alle 3.00. Alle 4.00 sobbalzo: la moschea. Dopo aver partecipato assieme ai miei vicini alle dovute preghiere del mattino, riesco a riprendere sonno. Mi sveglio alle 11.00, stavolta sono la prima della casa. Mentre preparo il caffè, ricominciano le cantilene, di questo passo mi convertirò all’Islam.

In attesa del pranzo, esco per fare qualche foto al villaggio. A piedi e col sole a picco sembra un altro posto rispetto a ieri. Ripercorro la stessa strada per un breve tratto (andiamo per gradi) fino al ‘Buddha bianco’, che scopro con la luce del giorno non essere un Buddha ma un guerriero indonesiano.

Una farfalla formato Fabriano A4 si posa su un tronco. Provo ad immortalarla ma ovviamente scappa, anche se sarei io a dover aver paura di lei. Immortalo un po’ tutto, ogni angolo è nuovo, i locali mi guardano come fosse spuntato il quinto mistero di Fatima tra le foglie di banano e i pochi passanti in motorino suonano come se la loro squadra del cuore avesse vinto un derby.

Jackfruit
Giare
Terracotte
Guidare piano, ci sono molti bambini

Delle bambine fuori ad un’aia giocano in mezzo alla strada con dei polli neri, grigi e rossi. Quando mi vedono distolgono la loro attenzione dalle bestie e mi guardano incantate, poi agitano la manina e dicono: «Hello». Ricambio il saluto, sentendomi un po’ in colpa per avere immortalato senza ritegno ogni angolo della loro casetta, come fosse un reperto da laboratorio. Decido che per ora può bastare, in meno di un chilometro ho già fatto foto a sufficienza da riempire un album intero e poi il pranzo sarà quasi pronto.

Quando rientro a casa trovo Lauretta, un’altra ragazza italiana amica di Claudia, che poi è la legittima proprietaria della stanza che sto occupando abusivamente. Mi offre un aperitivo al latte di cocco fresco, appena comprato da un carretto ambulante. È stranissimo, molto meno denso di quello che importano da noi. Dico che voglio farne scorta al supermercato ma lei mi consiglia giustamente di comprare i beni primari dai chioschetti lungo le strade, o nei mercati, e di usare il supermercato solo per cose confezionate o di difficile reperimento.

N.B. Nei seguenti otto mesi e mezzo, andrò regolarmente al Superindo ogni settimana. Come non detto.

Venditori ambulanti (siomay da Bandung)
Pulsa (ricariche telefoniche) e becak

Ore 19.42

Ormai neanche dico più dove

(Alla moschea ovviamente stanno cantando)

Oggi è una giornata tremenda, fa caldissimo, sono a rischio svenimento da quando sono in piedi e le zanzare hanno capito evidentemente che è arrivato sangue fresco.

Dopo pranzo, per combattere l’ozio domenicale, per di più indonesiano, prendo parte alle lezioni di Bahasa Indonesia con le coinquiline e imparo qualcosina di utile per quando andrò in giro da sola. Prima cosa tra tutte: «Saya tersesat, tolong saya!» (“Mi sono persa, Aiutatemi!”). Ovviamente ho intenzione di fare un corso serio, ma un po’ di familiarità soprattutto per le emergenze non guasta mai.

Mi stufo presto, tuttavia, dopo circa un’oretta. Con questo caldo ti passa la voglia di fare qualsiasi cosa (ecco perché tutti sono così pigri). Decido di uscire per un altro tour fotografico, siamo verso sera (cioè in realtà sono le quattro e mezza ma fa buio prestissimo). La luce è bellissima e comunque ho voglia di fare due passi, ferma non riesco proprio a stare. Hanno ragione Claudia e Loretta, sono troppo nervosa e iperattiva, non entrerò mai nel ‘mood indonesiano’.

Faccio pochi passi a piedi, ricevo più saluti e sorrisi di quanti ne abbia ricevuti in vita mia e decido di prendere il motorino. L’umidità mi ha già sfiancata. Rifaccio le strade intorno casa (senza allontanarmi troppo, non oso) e mi fermo per immortalare tutto ciò che attira la mia attenzione. Cioè tutto. Il mio timore di offenderli fotografandoli nelle loro faccende quotidiane è del tutto infondato, non vedono l’ora di mettersi in posa. Quindi non mi faccio problemi e continuo il mio shot&go finché non comincia a farsi scuro.

A quel punto, decido di tornare, sia perché comunque per gli scatti notturni dovrei star ferma, possibilmente col cavalletto, sia perché ho accumulato abbastanza adrenalina ieri. Se ne riparlerà magari tra qualche tempo. Paradossalmente, tento di arrivare nel luogo mistico in cui mi ero persa per ben due volte e ovviamente non ci riesco. Ma forse ero entrata in un’altra dimensione, avrò imboccato l’ottuplice via, va a capire.

Adesso aspettiamo la cena. Qui è tutto un aspettare e un rilassarsi in attesa di aspettare di rilassarsi, io già smanio per svegliarmi presto domani e per andare all’ISI, ma soprattutto per fare il trasloco. Sarò il terrore degli indonesiani.

Tappezzerie
Il ruscello
Polli ruspanti

Ore 21.29

Sempre qui

La moschea purtroppo non ci allieta a quest’ora. In compenso, delle ragazzine indonesiane della porta accanto sghignazzano allegramente mentre una di loro tenta di improvvisare canzoni occidentali con la chitarra, tipo Just give me a reason di Pink, jingle pubblicitari e una Per Elisa priva di Si (non ce la fa proprio ad azzeccarlo).

Siamo andati a cena in un posto vicino Kasongan, e abbiamo mangiato noodles misti a tutto e del pollo. O meglio, scarti di pollo: ossa, vertebre, articolazioni, testa… io ho preferito darmi all’insalatina e ai cracker. Che poi non sono cracker, sono dei dischi attorcigliati che hanno lo stesso sapore, e credo la stessa natura, delle nuvolette di granchio del ristorante cinese. Loro usano metterle in recipienti cilindrici trasparenti sui tavoli, ognuno ne prende a piacimento.

All’inizio li avevo scambiati per grosse lanterne piene di strane candele: «Maybe, we can light a candle».

Sguardi interdetti.

Questa frase diverrà il mio cavallo di battaglia nell’intrattenimento da salotto.

Beviamo una sorta di infuso di zenzero, nel senso che c’erano pezzi di zenzero sul fondo di un bicchiere d’acqua calda. Utilissimo alla gola e al mio raffreddore, che non so come ho fatto a beccare con trenta gradi all’ombra e un buon 80% di umidità. Paghiamo pochissimo, intorno alle 16,000 rupie come al solito (circa un euro). Che poi costerebbe anche meno ma qui pare facciano un prezzo apposito, maggiorato, per i turisti stranieri, il cosiddetto harga bule (‘prezzi per bianchi’). Comunque si tratta del solito euro, non vale neanche la pena di risentirsi.

Torniamo e troviamo una sfilza di motorini parcheggiati dentro il cortile di casa. Ci hanno promossi a garage. Mi metto in veranda ad armeggiare con le foto fatte oggi in compagnia di Claudia, che mi dischiude verità oracolari. Tipo che i ‘fuochi votivi’ di ieri altro non erano che un pratico modo di smaltire i rifiuti in assenza di una raccolta organizzata. Forse è tutto meno mistico di quanto sembri agli occhi di una sprovveduta straniera ignara di tutto ciò che vede. Sembro Alice nel paese delle meraviglie, solo che qui non c’è una regina che taglia teste, al massimo le mangia.

Ore 23.58

Non succede nulla in particolare. Un tokay (vedi: enorme geco a pois rossi) singhiozza da qualche parte del soffitto e a me prende un colpo perché sembra ci sia qualcuno nell’altra stanza che dica: “Okay”, in preda all’ubriachezza. Invece no. è solo un geco molto pittoresco.

Poco dopo, mentre una rana passeggia tranquillamente nel nostro salotto, un magrissimo gatto bianco a pelo corto gironzola qua e là per la casa, in cerca di cibo. Rovista un po’ in cucina, al che, insoddisfatto, scompare nel corridoio. Da fuori arriva di tutto: melodie gamelan da altoparlanti, urla a caso, galli che cantano (reimpostategli il fuso orario) e cantilene indonesiane cantate da chissà chi, chissà perché.

Spielberg ci avrebbe già fatto tre film.

Altari votivi, ergo: il cesto dei rifiuti
Altri sortilegi