«Guidato dal tuo odore verso climi
Affascinanti, vedo un porto fitto
D’alberi e vele ancora affaticate
Dal fluttuare dei marosi, mentre
Il profumo dei verdi tamarindi
Che circola nell’aria e che mi gonfia
Le nari, dentro l’anima si mischia
Con il canto, laggiù, dei marinai
[…]».
(Charles Baudelaire, Parfum Exotique)
28 dicembre 2013
‘Veranda’ (chiamiamola così) del Mila Homestay
La mattina del 27 dicembre ci svegliamo alle sette del mattino in punto, rinvigorite e pronte ad iniziare la seconda parte del viaggio verso nuovi orizzonti.
Usufruiamo della colazione offertaci dalla Sendok Homestay (letteralmente ‘Casa Vacanze Cucchiaio’, che è presumibilmente come verranno a raccoglierci) a base di pancake alla banana, toast, macedonia di frutta e tè (secondo la nostra ordinazione caffè).
Prima di effettuare il check-out, attraversiamo la strada verso il Diving Center per reperire informazioni circa il nostro futuro imminente alle isole Gili.
Al Dream Divers è facile, troviamo una gentile signora che ci organizza tutto in quattro e quattr’otto. Immersioni livello avanzato per Fra e corso base di Scuba per me.
A questo punto, ci rechiamo al locale adiacente che millanta ‘informazioni turistiche’, per tentare di reperire una qualsiasi imbarcazioni che ci porti alle Gili.
Entriamo in un locale spoglio, adornato solo file di tavole da surf accostate alle pareti, in cui un tizio apatico riesce, tra nebulose di pensieri a confusi, a proferire solo una parola, che suona come un Oracolo: “Senggigi”.
E ci siamo.
Ricorrendo a doti neuropsichiatriche che non credevamo di avere, riusciamo ad estorcergli un’informazione circa gli orari.
L’ultima nave è partita alle 8.00 di stamattina, dobbiamo andare a Bangsal, un porto che è ad una mezz’ora di macchina più a nord.
Partiamo senz’altro.
Il tragitto è meraviglioso.
La strada costeggia spiagge incantevoli, incastonate tra insenature di sabbia candida e distese di palme a non finire. Mucche VIP (la popolazione è parte induista) e polli suicidi scorrazzano ai lati, ma più che altro al centro, della carreggiata.
Rimaniamo letteralmente rapite dalla visione del paesaggio per una buona mezz’ora.
Novantamila rupie dopo, ci fermiamo a lato di una viuzza sterrata a pochi metri dal porto (per l’autista: “Un chilometro”).
Gli chiediamo quale sia il motivo che gli impedisce di proseguire per quel piccolo tratto.
Non lo sa, ma non può.
In compenso, c’è un carretto trainato da un cavallo che ci attende ansioso di scortarci per questa ‘lunga tratta’.
Il pensiero di farcela a piedi ci sfiora per un attimo, ma poi buttiamo un occhio alla mole di bagagli accatastata sul sedile posteriore e decidiamo che forse è il caso di usufruire del passaggio.
Trentamila rupie, cento metri e una notevole dose di astio dopo, ci ritroviamo scaricate in faccia al porto.
L’ennesima truffa.
Recuperiamo il tutto nostro malgrado e ci infiliamo subito nell’ ‘agenzia’.
Una baracca semi-fatiscente tenuta in piedi da lamiere portanti e sbiaditi cartelli di promozioni attaccati un po’ dove capita.
Il proprietario ci accoglie a braccia aperte, biascicando le solite poche parole mal dette che non vedono l’ora di sfoggiare quando capiscono che sei italiano.
All’inizio sembrerebbe tutto abbastanza chiaro.
Ci sono due opzioni: il traghetto pubblico da 30.000 rupie, che parte quando ha raggiunto il numero necessario, e quello ‘privato’ che costerebbe 300.000 rupie (dieci volte tanto) ma, in compenso, dovrebbe partire subito.
Dato che il secondo pacchetto sarebbe comprensivo anche di trasporto fino a Bali, che è la nostra prossima tappa, pensiamo bene di prendere due piccioni con una fava, anzi, con 600.000 fave.
Ci scortano alla spiaggetta del porto, che appare come una piccola striscia di sabbia e sterpaglia abbandonata a sé stessa, contorniata da palme e rifiuti di vario tipo e trafficata da caricatori e scaricatori di ceste di frutta e bombole di gas per le navi.
E non manca di certo lui, il caro vecchio chioschetto di kopi panas (caffè caldo solubile) e noodles precotti della vecchina di turno.
Notiamo che non c’è molta gente in fila per l’imbarco.
A dir la verità, nessuno è in fila.
Ci saranno una ventina di persone massimo, spiaggiate in contemplazione del mare, con atteggiamenti e facce che fanno trasparire una poco rassicurante attività di lunga attesa.
Facendoci forti del nostro ‘blue ticket’ da imbarcazione high class, ci facciamo largo tra gli astanti, procedendo a passo deciso verso le navi ormeggiate, come Briatore in procinto di metter piede sul suo Yacht.
Poi adocchiamo la nostra ‘barca privata’. La gloriosa BINTANG (letteralmente ‘stella’) fluttua placida tra l’onde, mentre uomini a torso nudo col volto coperto da cappelli di paglia caricano a bordo provviste per un intero villaggio.
Una chiatta in legno verniciata di azzurro, equipaggiata di tendone di coperta e divina provvidenza. Ci mancava solo questa.
Ho preso più mezzi di trasporto in questi ultimi due giorni che in vita mia, la metà dei quali non avrei immaginato esistessero.
Ci appropinquiamo dunque all’imbarco ma il tipo che ci aveva scortate ci ferma.
Non ancora.
Non capiamo.
“Dieci minuti”.
Già capiamo che la promessa della partenza imminente era l’ennesima farsa.
Dopo dieci minuti esatti parte il reclamo. Gli facciamo notare che ci aveva detto che saremmo partite subito.
No, non l’ha mai detto.
Ricominciamo.
Prima che la collera spazzi via i chakra dal primo all’ultimo tipo domino, decidiamo di rivolgerci ad un altro tizio, dietro di noi, che comincia a blaterare: “Now now… five minutes”.
Cinque minuti dopo, come promesso, cominciano a chiamare le persone.
Accorriamo in fila.
No, non è la nostra.
“Twenty minutes”, pronuncia con fermezza l’uomo.
Ho voglia di prenderlo a vangate e darlo in pasto alle mante.
Giusto il tempo di farci prendere un attacco di bile, che un altro omino rettifica: “Ten”.
Ma quello di prima è ancora convinto: “Now”.
Squali, voglio gettarli in pasto agli squali.
Cinque minuti dopo, prendiamo posto sul battello della speranza.
Mentre Fra si abbarbica tra ceste di banane, ananas e cartoni di noodles precotti, io mi guadagno un bel posticino a prua, en plain air, proprio dietro il marinaio addetto all’ancora, e mi godo questa mezz’oretta di cavalcata tra i flutti.
Il primo dei tre isolotti, Gili Air, è più vicino di quanto immaginavamo.
Ed è decisamente più sporco.
Man mano che ci avviciniamo alla riva, scorgiamo rifiuti di ogni genere fluttuare sull’acqua cristallina. È un vero peccato.
La nave attracca al porto e noi ci diamo subito all’esplorazione dell’isola, a piedi, con tutti i bagagli a carico.
Non esistono mezzi di trasporto, tranne i carretti.
Abbiamo già dato.
Dopo i primi 200 metri demordiamo. Troppo caldo, troppi bagagli, troppi trasbordi e ancora neanche una meta fissa. Decidiamo che è tempo di vacanza. Ci buttiamo nella prima spiaggia che troviamo e ci diamo allo snorkeling selvaggio.
Il fondale marino è un tappeto di coralli, spugne, pesci di ogni tipo, forma e colore.
Una vera meraviglia. Sembra di essersi tuffati in uno di quegli acquari tropicali da esposizione. Incrocio un ‘pesce batik‘ (così chiamato perché riprende i pattern tipici della stoffa tradizionale) e vorrei portarmelo a casa. Comincio a seguirlo come uno stalker finché mi semina fuggendo verso il mare aperto.
Dopo una mattinata di relax, è di nuovo tempo di riprendere le peregrinazioni. Alle tre di pomeriggio circa, ci dirigiamo verso il molo, pronte a salpare per la maggiore delle Gili, Trawangan.
Stavolta prendiamo l’imbarcazione pubblica, non ci fregano più.
Trentamila rupie e trenta minuti dopo, arriviamo all’ ‘Ibiza Indonesiana’, così soprannominata data la fama di isola della movida e del divertimento.
In effetti, non c’entra nulla con le altre due, soprattutto con Meno, rinominata ‘Robinson Crusoe’. Già il solo intravederla dalla barca rende l’idea.
Non appena mettiamo piede sul molo di Gili Trawangan ci ritroviamo fagocitate da locali, chioschi, club, Spa e Diving Center che affollano la via del porto, proiettandoci in un universo decisamente vacanziero.
Non sarà Ibiza, ma se non altro ce la mette tutta per somigliarci.
Non mancano comunque i tocchi di ‘folklore’ locale, come i carretti di bakso (polpette di scarti animali) e soto (zuppa di pollo), i benedetti carretti a cavalli che sfrecciano come pazzi, oltre agli empori a gestione familiare dai dubbi e disparati articoli e polli vaganti.
Ma la cosa più folkloristica di tutte è la nostra homestay.
Brutalmente accalappiate da un millantatore locale (non impariamo mai la lezione) ci facciamo attirare dalla tariffa super economica (300.000 rupie per tre notti) e, attraversando vie interne che lasciano trasparire sempre più traccia della vera vita isolana lasciando alle spalle gli ultimi sprazzi di occidentalismo, arriviamo al Mila.
Deprimente tugurio privo di ogni forma di igiene e presentabilità, non frequentato dal 29 novembre, secondo il registro ospiti.
Manca solo Norma Bates.
Non so sotto quale effetto allucinogeno, effettuiamo il check-in e paghiamo senza battere ciglio. È tutta nostra, che meraviglia.
La ‘reggia’ si compone di: mura giallastre e decrepite con processioni di formiche a motivi ornamentali; letto matrimoniale dalla struttura in legno liso e tarlato, componenti aggiuntive in cartone e materasso più duro di un blocco di ghisa; mobiletto-armadio con ferro arrugginito (la chiave); tre ventilatori di cui due a stelo relativamente recenti posizionati ai lati del letto e uno in pura ruggine appeso al soffitto come un relitto di un galeone affondato.
Ma non finisce qui.
C’è anche il bagno in camera, a cui si accede tramite disimpegno dotato di porta ad arco altezza hobbit, decorata a motivi orientali che fanno pendant con le formiche sul muro.
Il bagno.
Doccia brulla ad acqua ghiaccia; water buttato a pochi centimetri da essa, garantendo minimo spazio per le gambe a fronte di metri vuoti di stanzone inutilizzato; pavimento grigio cemento e poi lui.
Il lavandino: “Ila, ti prego vieni a vedere”.
Mi affaccio da dietro la spalla di Fra e ammiro quel ritrovato di arte contemporanea davanti ai miei occhi: il rubinetto è completamente ossidato, tanto che, esattamente al centro si è formato un enorme buco, dal quale l’acqua fuoriesce prima di arrivare all’estremità.
La scritta ‘Rossi’ troneggia beffarda sulla manopola.
Si sa, del resto, che gli Italiani sono famosi per l’arte delle fontane e giochi d’acqua.
Un’installazione degna di Villa d’Este.
Ci facciamo una doccia ad occhi chiusi e usciamo ad esplorare l’isola.
Ci incamminiamo per la via costiera con l’intento di una salutare passeggiata tra sabbia e natura.
Un putiferio.
Locali, resort, venditori ambulanti, e Diving Center pullulano di turisti chiassosi.
La strada è invasa da gente a passeggio, imbecilli in bici senza una corsia che li contenga e terroristi coi carretti che attentano alle nostre vite da ogni dove.
Esattamente quello che cercavamo.
Per fortuna, man mano che ci si allontana dalla parte turistica dell’isola, lato porto, i segni di civiltà cominciano a diradarsi lasciando spazio alle vere meraviglie locali. Spiagge candide colme di detriti di corallo, noci di cocco e acqua turchese.
Ci fermiamo per un po’ a crogiolarci su delle amache in riva al mare, forse appartenenti a qualche resort ma beatamente incustodite. Poi decidiamo di continuare il giro di esplorazione, ma a circa metà della circonferenza dell’isola gettiamo la spugna. L’avevamo sottovalutata.
Ci guardiamo con un’espressione di rassegnazione mista a quel brivido di azzardo inconscio ed incosciente che ci contraddistingue nei momenti in cui prendiamo questo tipo di decisioni: il carretto.
Ho una malaugurata idea di mettermi a parlare col guidatore in indonesiano per spiegargli che siamo delle studiose interessate alla vita locale. Più che alla parte turistica, dunque, vorremmo che ci portasse a dare un’occhiata alla parte nascosta dell’isola.
Non l’avessi mai fatto.
Colmo di eccitazione, acchiappa il primo sentiero sterrato che trova, cominciando a trottare come un assassino, falciando tutto ciò che trova sul cammino.
Ma a questo ce lo saremmo quasi aspettato.
Poi la situazione precipita di botto.
L’uomo svolta all’improvviso in una stradina fangosa verso l’interno dell’isola. Ogni sasso è uno sbalzo semi-mortale fuori dalla misera sbarra di recinzione del trabiccolo.
In un moto di eroismo, mi sporgo a vedere cosa ci attende all’orizzonte: solo pozze, massi e tronchi di palme caduti orizzontalmente sul sentiero.
È Tomb Rider.
Mi giro preoccupata verso Fra: “Non vorrà davvero fare questa strada, vero?”.
Fra si limita ad alzare le spalle.
La fa.
All’ennesimo semi-capovolgimento del carretto, la faccia dell’infermiera si apre un varco tra i pensieri di morte che affollano la mia mente: “Don’t push yourself”.
La cosa positiva è che se non altro, siamo davvero nella parte autoctona dell’isola.
Tra un capogiro e l’altro, cominciamo ad intravedere tra i palmizi dei piccoli insediamenti di case in bambù, costellati di gruppi di mucche al pascolo e locali impegnati in attività di raccolta e taglio di noci di cocco e tronchi.
Vorrei fotografare qualcosa ma poi mi rendo conto che, con tutto quel trambusto, verrebbe fuori una stampa impressionista. E poi devo già concentrare tutte le mie energie a reggermi.
Decidiamo di tornarci in condizioni ‘normali’.
Quando metto piede a terra quasi la bacerei.
Decidiamo che è tempo di prenderci una pausa dall’avventura.
Ci sediamo comodamente ad un ristorante in riva al mare a mangiare pesce a volontà.
Sotto il buio porticato, ci perdiamo ad osservare degli uomini che scaricano canne di bambù da una barca.
Non capiamo come ci siano entrate, sono lunghe più di due persone assieme e la barca è la metà di esse. Non c’è obiettivamente spazio, sembra un gioco illusionistico.
La location unita al cibo squisito ci fanno decisamente rincuorare. È tutto meraviglioso, a parte il servizio. Ore e ore di attesa per aspettare che gli inservienti indonesiani smettessero di ballare e cantare hit anni ‘90 per venire a servire ai tavoli.
Con lo stomaco pieno e la stanchezza arretrata da tempi che non è d’uopo rivangare, decidiamo di andare in stanza a riposare, credendo di aver finito le tribolazioni.
Non sono ancora iniziate.
Scopriamo a malincuore che l’assenza di luci elettriche rientra tra gli elementi ‘folkloristici’ della parte più interna dell’isola.
Ritrovando la strada a tentoni, riusciamo ad imboccare nel giardino del Mila.
“Mi raccomando Fra, chiudi bene”, dico indicando le ante del cancelletto di legno, prive di ogni tipo di serratura.
Ma il bello viene quando apriamo la porta della camera.
Fra accende la luce e caccia un urlo.
Una blatta gigante passeggia sul nostro copriletto.
Parte la caccia grossa.
Mentre Fra si intrattiene in vari giochi popolari con la blatta (acchiapparella, un due tre stella, strega di mezzanotte etc.) io mi accorgo che, nel frattempo, un altro ospite ha fatto il suo ingresso nella maison: un gatto.
Lo piazzo fuori e chiudo la porta.
Mentre mi accingo a dar man forte (ma più che altro piede) alla comare, lei mi fa notare che qualcosa è andato storto: “Il gatto è ancora là”, dice, tentando di impedirgli di saltare sul letto senza successo. Viviamo attimi di panico.
Mentre la blatta continua a correre come un go-kart impazzito da un lato all’altro della stanza, il gatto punta il bagno.
Adesso è troppo.
“Fra, scegli, vuoi il gatto o la blatta?”.
“La blatta”.
“Perfetto, io mi occupo del gatto”.
Dopo altri due o tre trucchi alla Mago Silvan, capisco il problema: la finestra, celata dalla lunga tenda, era rimasta aperta. Dunque, ripongo per l’ennesima volta il felino sul pavimento della veranda e barrico tutto tipo carcere di massima sicurezza.
Mentre finalmente anche Fra sembra ad un passo dal compiere l’impresa, calando la ciabatta fatale sulla blatta chiusa alle strette, qualcosa va storto.
Ripetuti colpi al vetro ci fanno sussultare, facendoci scappare ancora una volta la preda.
Il gatto protesta. Ora basta.
Vinciamo il round finale con un colpo da maestro. Lancio la borsa di stoffa sull’insetto per intrappolarlo, al che, con una coordinazione robotica, la alzo mentre Fra cala il colpo mortale. È finita. Trasciniamo fuori la carcassa lasciandoci dietro una scia giallastra sul pavimento, che aggiunge un ulteriore tocco di classe all’arredo.
Crediamo di aver terminato i problemi, ma non è così. Eserciti di formiche si affannano ad accaparrarsi il sauté di blatta residuo ai piedi del nostro letto.
È barbarie.
In preda all’isteria compulsiva, acchiappo acqua, sapone e carta e stermino tutto.
Mentre entro in bagno per gettare gli ultimi resti della battaglia, incappo nella retroguardia. Una seconda maxi blatta ci accoglie agitando le sue antennine dallo stipite, altezza uomo.
Ma c’è di peggio. Questa vola.
Sono ricorsi agli aerotrasportati.
Altri minuti di divertimento, e anche l’ultimo ospite è debellato.
Andiamo a dormire più guardinghe di due soldati in trincea, maledicendo le nostre iniziative malsane e i clienti dei migliori resort vista spiaggia.